Una vena d'acqua
- Daniele Benussi

- 23 giu
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 10 ago

Adesso è passato un anno, e lei ci aspetta in un lido deserto, gli ombrelloni tutti chiusi. Si fa bastare un libro e i quattro raggi di sole che filtrano tra nuvole scure. Mi pare stanca ma sorride, ed è questo, il suo modo di abbracciare.
Da quando è tornata alla sua normalità, voleva solo questo: lasciarsi dietro Milano e andare via prima che cominciasse l'estate, fare mezza piadina con noi e il suono delle onde affianco. Dentro di lei, l'Adriatico è un posto dove le barche rallentano e si mettono in ordine.
Ma non è che me l'ha detto. L'ho capito per osmosi, standole accanto, sentendola fantasticare in certe sere di gennaio, quando l'umore era abbastanza buono da lasciarle desiderare qualcosa.
Lei non è che parli più di tanto. Si stizzisce con poco e all'idea di far due passi le sale una specie di rigurgito. È come se, negli anni, col corpo avesse provato a fare un patto: "Io non ti uso, tu mi lasci fare".
Ma si può esistere, senza corpo? Sono arrivato a dirmi, in questo anno, che forse gli infortuni capitano anche per questo: ricordare alle anime come mia madre di essere prima di tutto carne, e di esistere.
Dopo un inverno di stampelle, ospedali, fatica, ora ci cammina davanti, una gamba metà dell'altra, la vite che spinge sotto pelle, accanto all'osso ricostruito.
- Manca tanto a 'sto posto?
- È quello lì. Cinquanta metri.
- Troppo.
Sfibrata com'è, mi chiedo dove abbia trovato la forza di tirarci su trent'anni e passa fa, quando eravamo noi quelli da raccogliere in bagno e portare a letto, quando ancora non lo sapevamo, che la vita può far male. E poi anche più avanti, mentre l'adolescenza ci rendeva stupidi e il suo incepparsi, a nostra insaputa, trovava un riscontro clinico. E ancora oltre, quando iniziavamo a farci adulti e ci vedeva partire per il mondo mentre il matrimonio la isolava.
Realizzo ora la durata dell'ultimo inverno, le due volte a settimana in cui la aspettavo nella sala d'attesa della clinica, i giorni in cui ho temuto si sgretolasse definitivamente, le sere in cui l'ho vista bere più del solito e poi quelle in cui l'ho vista bere troppo. Il pomeriggio della caduta si allontanava, eppure io continuavo a chiedermi che rumore avesse fatto il suo femore, quel venerdì di giugno. Che rumore avesse fatto dentro una come lei, fascio di apatia e confusione.
E adesso esce anche il sole, fa caldo. Lei sposta il lettino dall'ombra e si sdraia in un punto in cui tra due ore sarà abbronzata. Ha scoperto i podcast e vuole quelli con le puntate lunghe, che incanalano i pensieri verso un fatto solo e danno un motivo per sentirsi a posto nell'immobilismo, mentre la pelle cambia colore. Forse anche il sole fa quel lavoro che fanno gli infortuni, rende ai corpi la loro consistenza, li scotta, li scioglie, li fa sudare anche senza che si muovano, e a lei questo piace.
Per mesi l'ho vista improvvisare esercizi con gli elastici, agganciare sotto ai polpacci le cavigliere da due chili e fare su e giù mentre Canale 5 la aiutava a distrarsi.
- Uomini e donne, mamma? Dai.
- Prova tu a stare su un divano quattordici ore.
Recuperato l'uso minimo della gamba, ha voluto farla finita coi dottori, come se già il fatto di andare dalla sala al bagno senza dover accarezzare i muri, fosse per lei la condizione motoria sufficiente. Credo siano vent'anni che non fa un'ora di sport, e tutta la vita che non capisce chi lo fa. Tutto quasi normale, se non fosse che io e mio fratello siamo nati con addosso la maglia del Milan, e in mano la racchetta da tennis. E qui c'entra solo nostro padre. Quindi due opzioni: sacrificare nostra madre in noi, oppure cercarla negli sport che facciamo, quando la tensione cresce e di fronte a un avversario accecato dal risultato, a me viene in mente che da qualche parte c'è lei che, se solo fosse lì, mi guarderebbe con la stessa partecipazione con cui i cani, sdraiati su un tappeto in soggiorno, osservano i padroni fare sesso.
Sono convinto che nella mia strada di tennista ci siano state sconfitte e vittorie fuori misura, entrambe dovute a questo pensiero: mia madre indifferente a bordo campo, i suoi occhi sconnessi dalla foga del momento. È un pensiero che in certi casi ha aiutato a riequilibrare un forte carico agonistico, restituendo freddezza al mio gioco, e in altri ha spento definitivamente i pochi stimoli che c'erano. Sempre, mi ha ricordato che la vita vera sta fuori dalle quattro righe di un campo, e che per quanto io possa sfogare tossine e divertirmi, mia madre non sarà mai contagiata da questo.
Chissà se è così anche per mio fratello, ma una cosa è sicura: anche a lui tocca fare i conti con la morte motoria di chi l'ha messo al mondo.
Forse ci siamo abituati, crescendo, al fatto che in lei non avremmo mai avuto uno specchio in cui riflettere i nostri entusiasmi. In un mondo parallelo in cui certi umani sono fiumi e laghi, lei è sempre stata più simile a una piccola vena, di quelle che scorrono lente sotto una fila di rocce, e che se metti le mani a scodella, se rimani paziente a raccoglierla, dopo un po' riesci a dissetarti.
L'empatia che ti aspetti, lei te la dà in differita e, in fondo, adesso che ci penso, anch'io sono diventato così. Se scrivo è perché, mentre ho vissuto, non ho saputo reagire abbastanza.
Nel pomeriggio mio fratello riparte per Milano, e io rimango solo con lei. Ci siamo dati il cambio, quello di oggi era solo un intermezzo, uno spazio di qualche ora in cui ricordarci cosa ancora possiamo essere tutti e tre assieme. Quando si diventa grandi non è che ne capitino molti.
Ma verso sera, da nord, cominciano a correrci incontro nuvole nere, cariche di tempesta. Me ne rendo conto per caso, seguendo il volo agitato di un gruppo di gabbiani.
In lontananza, più su lungo la riviera, vediamo i primi ombrelloni scoperchiarsi e la sabbia sollevarsi in vortici sulla ciclabile che costeggia il lido.
- Mamma, c'è da andare.
Lei si solleva, piega il telo e lo rimette in borsa. Si infila nel vestito, si accende una sigaretta e ci mettiamo per strada mentre il cielo si fa nero e il mare inizia a ribollire. Per arrivare all'appartamento abbiamo dieci minuti di camminata che potrebbero diventare cinque, se ci mettessimo a correre.
Provo ad accelerare il passo.
- Sei fuori di testa?
Mi infastidisco ma rallento.
- Così la prendiamo tutta.
- Mi devo spaccare anche l'altra gamba?
Finisce che ci fermiamo in un bar ben prima che arrivi la bufera, e da lì la guardiamo passare, sommergere d'acqua i sanpietrini del lungomare e inzuppare i vestiti a chi corre a casa riparandosi la testa con uno zaino.
Ce ne andiamo un'ora più tardi, quando il sole fa uno squarcio in cielo e torna a far scintillare un pezzo di mare. Dalla parte delle colline, sopra i cavi della ferrovia e i pini marittimi, si accende timido un arcobaleno. Lei guarda su e sorride senza scomporsi, mentre camminiamo lenti verso casa, un passo dopo l'altro, con in bocca il sapore di caffè.
Vorrei dirle che le cose esistono per tutti, anche per chi riesce solo a sfiorarle, ma rimango in silenzio.









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