Noi e quell'altro mondo
- Daniele Benussi
- 6 giorni fa
- Tempo di lettura: 7 min

(Racconto pubblicato da Rudis Editore sulla raccolta "Appunti di viaggio" e da Biblion Editore in "Una specie di vacanza")
Verso sera, dopo diciotto ore di volo, l’aereo ci vomitò sull’asfalto dell’aeroporto di Perth.
Visti da fuori dovevamo sembrare due cazzoni. Due grossi cazzoni ricoperti di zaini e di inquietudine. Ci guardammo negli occhi, era strano: una vita passata a condividere dodici metri quadrati, una vita di idiozie, giochi insulsi culminati in penitenze barbare, guerre fatte a mosse di wrestling, prese per il culo, risate che scompigliano la gola. I pokémon, la playstation, il tennis, il Milan, la musica, la timidezza che tiene lontane le ragazze, la famiglia che si spacca, i sogni di uno che diventano quelli dell’altro. Chris McCandless. La vita che non ci basta.
Voglio sbattere il cuore in giro per il mondo.
Anche io, fratello.
E dove ce ne andiamo?
In Australia.
Ed eccoci lì. La mascella dell’ufficiale di dogana si mosse in su e in giù, poi un timbro pucciato nell’inchiostro si depositò sui nostri passaporti. Eravamo dentro. Dell’Australia sapevamo poco. Di Perth forse niente, non ricordo. Ricordo che la scegliemmo perché ci sembrava una meta meno battuta rispetto alle altre grandi città , e la sua posizione, persa come un miraggio solitario nel grande Ovest, ci trasmetteva un senso di scoperta dal quale sentivamo di voler iniziare.
E da lì iniziammo, davanti al volto scoglionato del cinese che gestiva l’ostello in cui capitammo la prima sera. Quando ci vide non fece alcuna espressione. Ci guardò e, contandoli uno per uno, ci mise nelle mani sei aggeggi. Erano una forchetta, un coltello, un cucchiaio, un lenzuolo, un cuscino, una coperta. Ci disse che andavano riconsegnati così, altrimenti multa di cinquanta dollari. La cosa ci fece ridere. Poi ci accompagnò in stanza, ci lasciò le chiavi e se ne tornò al suo bancone. Avvisammo a casa: siamo arrivati, siamo vivi, siamo noi due,
sempre noi due. In camera c’era silenzio.
Andammo a comprare una scheda sim, aprimmo un conto bancario e sbrigammo tutte la lista di pratiche burocratiche che ci spettavano e, dopo quattro o cinque giorni, di fronte a due birre da dieci dollari, capimmo di non voler rimanere a Perth. In un magazzino, per cinquanta dollari a testa, rimediammo due mountain bike usate, e cominciammo a vagare lontano dal centro, verso il mare.
Continuammo a pedalare per una decina di chilometri, finché le costruzioni si fecero più basse e le strade più strette. A Cottesloe il fiume finì la sua corsa, e davanti a noi non c’era più strada ma sabbia. Il vento si fece più aggressivo, i nostri occhi videro l’Oceano Indiano. E ora? E ora giù, verso sud, lungo la costa.
Arrivammo a Fremantle, un villaggio portuale affacciato sull’oceano. Attraversammo la sua via principale, piena di ristoranti e locali rilassati, coi tavoli che arrivavano fino ai bordi della strada e la gente appollaiata sulle sedie a consumare frullati di mango e zuppe di cozze al pomodoro.
La mattina seguente infilammo tutto di nuovo negli zaini e riconsegnammo i sei aggeggi al cinese. Goodbye man, we leave.
I primi giorni a Fremantle puzzarono di un nuovo ostello, fatica e incertezza. Andammo a vedere un paio di case: facevano pietà . I prezzi di ogni cosa erano cari e non c’era più tempo da perdere: ci serviva un lavoro. Ci mettemmo a segnare su un quadernino ogni spesa: biglietti degli autobus, bottigliette d’acqua, coni gelato da una pallina sola. Ogni dollaro speso finiva impresso su quel quadernino, preceduto da un trattino orizzontale che voleva dire una cosa sola: i soldi stavano calando.
Una mattina la passammo in giro a lasciar curriculum nei ristoranti e il giorno dopo il mio telefono australiano squillò.
‹‹Hey this is the chef from Monk Brewery, are you available for a trial today?››
‹‹Arrivo.››
Nel pomeriggio mi presentai al Monk con uno zainetto con dentro la vecchia divisa da cuoco di mio padre, un paio di scarpe da lavoro e la faccia di chi non sa cosa sta facendo.
‹‹I’m the chef, nice to meet you. Sai fare la Napoli Sauce?››
‹‹Eh?›› ‹‹La salsa di pomodoro.››
‹‹Ah, sì ovvio.››
‹‹Show me.››
Mi indicò il frigorifero con gli ingredienti e un pentolone grosso come una lavatrice. Scelsi di fare la salsa come la fanno all’estero, piena di cipolla.
‹‹E la pizza la sai fare?››
‹‹Sì che la so fare chef.››
‹‹Per duecento persone?››
‹‹In che senso?››
Mi portò al forno delle pizze. Mi insegnò a stenderle poi me ne fece cuocere una. Come la provai a infilare in forno si ribaltò, gli ingredienti si schiantarono contro la pietra rovente e salì una nuvola di fumo nero. Disastro.
‹‹Lasciamo stare, ci servi in cucina. See you tomorrow.››
La sera raccontai tutto a mio fratello e ridemmo come pazzi. Averlo accanto era sempre stato questo: poter ridere di tutto. Mi disse che a lui non lo aveva chiamato nessun ristorante, ma che girando per Fremantle aveva trovato il circolo di tennis, e che il maestro gli aveva detto di aver bisogno di un aiutante.
‹‹E tu cosa gli hai detto?››
‹‹Che gli farò sapere. Ma non ci vado.››
‹‹Perché?››
‹‹Perché siamo qui per non essere chi siamo sempre stati.››
Il giorno dopo mi presentai al Monk per il mio primo giorno. Lo chef mi fece conoscere tutta la brigata, compreso il suo vice: un gigante brasiliano che per prima cosa mi mise di fronte a un tagliere su cui fece cascare sette chili di carote. Poi mi diede un pelapatate. Have fun buddy.
Quando finii di pelarle me le fece tagliare a rondelle, e poi mi fece ricominciare da capo, questa volta con le patate. Have some more fun.
Finii di tagliare le patate con le mani inturgidite e una vescica aperta alla base dell’indice che pulsava come un tamburo. Il brasiliano mi diede quaranta pacchi di linguine, da cuocere nel pentolone dove il giorno prima avevo fatto la Napoli sauce. Li aprii e cominciai a calare le linguine nell’acqua bollente. Ma le girai troppo poco per il peso che avevano, e dopo qualche minuto quelle sul fondo si attaccarono al pentolone come ventose e cominciarono a carbonizzarsi.
‹‹E adesso chi cazzo la lava questa?››
‹‹Io, chef.››
‹‹Veloce.››
Portai il pentolone al lavapiatti, che mi consigliò di lasciarlo a bagno qualche ora prima di provare a scrostarlo. Era un ragazzo cinese con gli occhi calmi e una voce pacata, che in quella cucina mi sembrò qualcosa di raro. Grazie, gli dissi.
Verso le dieci di sera lo chef venne a dirmi che l’indomani ci sarebbe stato l’Australia Day e che il ristorante sarebbe stato pieno dalle undici di mattina a mezzanotte.
‹‹Dovrai stare alla postazione hamburger. Sei pronto?››
‹‹Sì, chef.››
Poi mi chiese se conoscevo qualcuno che potesse venire a dare una mano al lavapiatti.
‹‹My brother.››
‹‹Ci sa fare?››
‹‹È un bravo ragazzo.››
‹‹Va bene, alle nove qui.››
Tornai a casa con la musica nelle cuffie e trovai mio fratello in cucina che parlava con altra gente. Avevo la faccia unta come una frittella.
‹‹Com’è andata?››
‹‹Un inferno, ma domani ci andiamo insieme.››
Alle nove del mattino ci presentammo al Monk con la forza di non essere soli. Lasciai mio fratello in cucina a prendere ordini dal brasiliano, e seguii lo chef alla postazione hamburger. Mi fece vedere come dovevano essere impiattati i panini, con una foglia di lattuga e una fetta di limone messe di lato.
Alle dieci e trequarti ci chiamò tutti in cucina. Ci mise in cerchio, lui in mezzo, e poi ci disse che chi aveva paura doveva dirlo subito, ché quella non sarebbe stata la sua giornata. Tutta la brigata cacciò un urlo. Noi ci guardammo: bella l’Australia eh?!
Alle undici cominciò ad arrivare la gente, il locale si riempì veloce. C’era un rumore da stadio, il mio stomaco si avvitò su se stesso, le mani iniziarono a sudarmi, mi scappava da cacare. Arrivarono i primi ordini, e appiattii le prime palle di carne sulla piastra ancora vuota. Più veloce, più veloce. Ci provo, chef. La macchinetta continuò a sputare fuori ordini, la piastra diventò un labirinto di hamburger, per tostare il pane non c’era più spazio.
Ma il peggio arrivò quando, senza accorgermene, misi nel piatto, assieme a un hamburger e alla solita foglia di lattuga, qualcosa che non doveva finirci. Lo chef prese il piatto e poi non ci vide più. Prese in mano lo spicchio di limone e me lo scagliò sulla tempia destra. Sentii due schizzi acidi bagnarmi l’orecchio e mi voltai con un nodo in gola. Che ho fatto adesso? Guardai meglio lo spicchio: era già masticato da qualcuno. Come cazzo ci era finito in mezzo a tutti gli altri?
‹‹Sorry chef.››
‹‹Vieni con me››.
In cucina ritrovai mio fratello alle prese con un cespuglio di prezzemolo. Il brasiliano gli mise nelle mani una pinna di squalo e gli disse tieni, tra cinque minuti questo prezzemolo deve diventare farina. E io lo vidi afferrare quel coltello e mettersi a tritare il prezzemolo senza sapere da che parte iniziare. E intanto mi guardava ridendo.
‹‹Come cazzo si fa a tritare?›› mi chiedeva a bassa voce. E io a gesti provavo a farglielo capire. A me venne dato un altro sacco di carote da pelare, come il giorno prima, e intanto, quando il brasiliano si distraeva, andavo da mio fratello a fargli vedere come usare il coltello.
‹‹Perché ti ha rispedito in cucina?››
‹‹Ho messo un limone masticato nel piatto.›› Risate.
Quando tornai a vedere come se la stava cavando col prezzemolo, notai che sul tagliere gliene era rimasto meno rispetto all’inizio. E il resto dov’è? Guardammo giù. Ai suoi piedi c’era una cassa piena di farina per la pizza, e metà del prezzemolo era caduto proprio lì dentro mentre lo tritava. Merda, e adesso? Ci chinammo insieme verso la cassa, e come due becchini sotterrammo il prezzemolo nella farina, in modo che non si vedesse.
‹‹E se domani se ne accorgono?››
‹‹Domani noi qui non ci torniamo.››
Uscimmo dal ristorante verso le undici, dopo aver detto allo chef che non saremmo mai più tornati. Lui ci disse va bene, ci chiese i dati bancari per pagarci, e poi se ne andò via su un macchinone nero e lucido. Ce ne andammo a camminare in spiaggia. L’oceano ululava nell’oscurità , la luna era un’unghia in mezzo al cielo. Non c’era niente da ridere, ma noi ridevamo.