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Il partigiano Giulio

  • Immagine del redattore: Daniele Benussi
    Daniele Benussi
  • 24 apr
  • Tempo di lettura: 7 min

Aggiornamento: 24 apr

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Saltiamo sul treno che è ancora buio, la faccia stropicciata, nello zaino le mutande mischiate ai libri. Andiamo a tenerci stretto un amico.

Lasciamo Milano e scendiamo per Pavia col giorno che nasce già annacquato.

Leggiamo Fenoglio per metterci in pari con lui, che ci aspetta ad Alessandria e ha fatto un solo programma: caricarci, mollare la macchina ad Alba e girare le Langhe a piedi. Ultimamente lo fa da solo, mi ha scritto qualche giorno fa, è il suo modo di ricaricarsi. Un’ora di guida ed è qui, a dare un volto alle cose che legge sui libri, ché a un certo punto siamo fatti di carne e ossa e la testa non basta: di uno scrittore ti viene voglia di vedere la casa, la macchina da scrivere, la tomba. Respirare l’aria che respirava lui, anche se è cambiata e se l’è presa lo smog o qualche rumore nuovo.

Ma forse qui è diverso, ce l’ha spiegato: un occhio di Piemonte che si è salvato dall’asfalto quasi per intero, e alla pupilla ci puoi arrivare solo col trattore, o camminando. E poi è un giovedì qualunque di fine inverno: se tutto va bene, dovremmo incontrare solo gli spaventapasseri.


Quando rivedi un amico dopo tanto tempo, ti capita di non credere che lo stai vedendo davvero, e che quella faccia, quel modo suo di camminare, quei capelli neri che l'ultima volta portava a cespuglio e adesso ha sfoltito, ti sembrano quelli di un plastico. Ti eri abituato a pensarlo e basta, e per crederlo vero ti serve un abbraccio più stretto.

Ma è sempre lui, con le sue maniere antiche, i tratti seri, e l’umorismo appeso a un filo invisibile. Si è un po’ asciugato sulle spalle, ma al bar scopro che non ha perso la fame. È la terza colazione di oggi, dice.


Eppure dovrei saperlo, ormai, che lui vive alla sua maniera. Che scrive la notte, adesso che di giorno consegna le otto migliori ore al padrone. E che non lo fa come gli altri, tirando tardi, ma svegliandosi presto, all'ora dei panettieri o di chi fa il mercato. Lavora a Genova, un'ora e mezza di treno, e quando torna a casa la sera mangia presto e si infila in camera evitando i discorsi in famiglia, la televisione, i social. Non è superbia, è amor proprio. Non è cattiveria, è il fardello, dare modo a qualcosa di totalizzare l'esistenza. Il prezzo da pagare è la comodità di essere quello che sono tutti.

Per fare la vita che fa ha smesso di vedere le partite dell'Inter e la gente che non gli tirava fuori niente.

Ricordo bene la prima volta che l’ho sentito parlare. Era il primo giorno di corso in università, e dopo una sfilza di presentazioni tiepide era arrivata la sua: - Mi chiamo Giulio, ho ventidue anni e voglio scrivere libri.

Da lì ho iniziato a farci caso, e in due anni mi sono accorto che ogni cellula del suo corpo non ha mai smesso di remare dietro a quella ossessione.

Erano così, i partigiani?


Dopo un caffè bruciato al bar della stazione ripartiamo per le Langhe, questa volta in macchina. C'ha un'utilitaria, il nostro amico, che è fatta un po' come lui: il telecomando si è consumato e un paio di porte si aprono da fuori, le altre solo da dentro, e deve pensarci lui. Quella più grande, il baule, non si apre proprio più, e la roba che c'è rimasta è un mistero.

Ad Alba arriviamo che è metà mattina e il sole è sepolto sotto un oceano di nuvole. Una birra in un bar cubano col poster di 2Pac due metri per tre è il nostro modo di far benzina, poi ci mettiamo in cammino.


Le ha calpestate prima lui, queste colline, ma ha gli occhi di chi ci va per la prima volta, il petto spinto in fuori dal peso dello zaino e il cuore gonfio di carta. Tira fuori una mappa dallo zaino e ci indica gli sterrati dove infilarci, dove infilare i piedi, col fango che ritarda i passi.

Parliamo di quella cosa di cui nessuno riesce a fare a meno e la mescoliamo coi libri e un sorso d'acqua.

Quando uno deve pisciare lascia il sentiero, va nel prato e gli altri due conservano il discorso, aspettano che torni il pisciatore e gli passano la frase da allungare, come fosse lievito madre.

Il cielo è uno spettro, le vigne sono scariche e il tempo dei turisti è finito da un mese abbondante. Sono rimasti i rintocchi delle campane e gli ululati di qualche cane che ci sente passare, eppure a noi pare di vederle per intero, le Langhe, di vederci dentro i soldati di Fenoglio che strisciano sui gomiti e guariscono l'Italia una bestemmia alla volta.


A Treiso, in cima alla collina, ritroviamo l’asfalto e una scuola elementare senza bambini, senza nessuno. Ci scrolliamo le scarpe dalla palta e apriamo un vino spingendo il tappo dentro la bottiglia. Mordiamo un panino e parliamo di come nascono le storie, quasi mai da un ragionamento, quasi sempre da un deposito inconsapevole, un cumulo di fatti e ricordi che a un certo punto prendono forma e cercano riscatto. E il nostro amico ne sa qualcosa: se ne viene fuori, a volte, con delle idee che tu lo guardi e ti chiedi da dove gli è uscita, e lui tutto serio, senza cambiare tono di voce, ti dice: - Ho pensato a cosa succede quando la persona a noi più cara smette di guardarci. - Oppure: - Non lo so, mi sono chiesto dove arriva un tizio che saluta la moglie, esce di casa e non smette più di camminare.


Forse è quello da cui scappi, la storia. Solo che a trent’anni c’è da lavorare e non è detto che avrai tempo di scriverle tutte, e allora conviene allenarsi anche ad altri riscatti, nella vita, affezionarsi alla sostanza più che alla forma, alla chiave più che alle serrature. Forse è così che si resiste a scrivere per tutta la vita: ragionando a perdere. Ma siamo troppo giovani, acerbi, straripanti. Si vedrà. Per ora non abbiamo accesso alla verità, ma un paio di gambe per cercarla, quelle sì, e il sudore che ci si asciuga freddo addosso ci ricorda che non siamo fatti per le chiacchiere. Bisogna andare, liberarci di questa malattia di voler capire tutto e sentire la vita nei muscoli, ricordarci che gli scrittori che ci piacciono non sono quelli che sceglievano le cose seduti al tavolino ma sbattendo di qua e di là, lasciando correre la penna anche quando non c’era la parola giusta nella lingua giusta, come il partigiano Beppe, che a un certo punto di un racconto, non ricordo quale, gli viene da dire escaped in inglese anziché in italiano e lo lascia così per sempre, non c’è revisione che tenga.

E allora mi sale in mente che forse la scrittura non è il perfezionismo di chi trova la parola perfetta, ma lo spazio di libertà in cui un perfezionista incallito si concede di passare dall’astratto al concreto, e di buttare giù una sola parola delle tante che ha in testa. Ancora una volta: non pensiero ma azione, presa di posizione. Corpo.


A metà pomeriggio diventiamo quattro. Dal cortile di una cascina viene fuori un bastardino a pelo lungo che ci salta in collo e ci sceglie come compagni di viaggio. Dal collare vediamo che si chiama Bolla, e da come rimbalza in giro per le vigne pensiamo che è il nome giusto. Fa un po’ come i boomerang: viene, si prende un buffetto e poi parte per una vasca di settanta ottanta metri correndo a tavoletta. Finché si volta, ci vede lontani che arranchiamo, e ricomincia. All’inizio pensiamo che voglia un pezzo di pane. Dopo due chilometri capiamo che vuole solo compagnia. Chissà quando abbiamo smesso di essere così anche noi.

Solo che Bolla fa sul serio, e ci segue anche quando finisce il sentiero e imbocchiamo il provinciale che riporta ad Alba, con le macchine che sfrecciano a novanta all’ora a due metri da noi. Non si sa per quale nemico le scambia, ma si mette pancia a terra a mo’ di agguato e quando passano gli salta sulle portiere e le rincorre per una decina di metri rischiando di farsi investire, finché l’autista se ne accorge e rallenta per maledirci.

La salviamo chiamando il numero che porta sulla medaglietta e lasciandola a una signora che la chiude nell’orto di casa sua fino a che la padrona non verrà a recuperarla. Ma come glielo spieghi, a Bolla, che te ne stai andando mentre lei ti guarda da dietro un cancello con le orecchie tese e il muso infilato tra le sbarre. Non glielo spieghi. La senti mugolare in lontananza, e ti rimane amica.


La sera andremo a mangiare la polenta all’Osteria dei Sognatori e passando davanti alla casa museo di Fenoglio vedremo la macchina da scrivere appena di là dal vetro. Una Olivetti color petrolio ancora in buona salute.

Domani Giulio la fisserà per una decina di minuti e poi si farà dire che no, non è in vendita. Peccato, dirà, poi chiederà la strada per il cimitero dov'è sepolto il suo scrittore preferito.

La percorrerà dicendo che non riesce ad ambientare qui i suoi romanzi perché qui è tutto del partigiano Beppe, e noi proveremo a dirgli che i posti non sono di chi li scrive ma di chi ci vive, e che il partigiano Beppe sarebbe fiero di avere un compagno come lui. Non sapremo mai se lo avremo convinto.

Quando arriveremo, scopriremo tutti e tre che il cimitero è appena fuori dal centro, e che il partigiano Beppe condivide la tomba con altri quattro parenti ed è sepolto in mezzo alla gente comune.

Sotto il suo nome una scritta: “Ci sarà sempre un racconto che vorrò ancora scrivere, ma ci sarà anche il giorno che non potrò più vivere”.


Ma oggi è ancora oggi, e quando rientriamo ad Alba le colline ci rimangono dietro la schiena, avvolte da un mare grigio che si porta via l’orizzonte. In stanza noi parliamo, Giulio legge e ogni tanto sottolinea con una penna blu che fa scorrere veloce sopra un righello in metallo. Quando senti quel rumore, vuol dire che ha vinto un'altra battaglia, che ha trovato una frase, un senso, una strada tutta sua, di cui il mondo non sa ancora niente.

 
 
 

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