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Sopravvivere a un inverno

  • Immagine del redattore: Daniele Benussi
    Daniele Benussi
  • 10 ago
  • Tempo di lettura: 6 min
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Ormai l’ho capito, che d’inverno faccio fatica. Negli ultimi anni, prima di tornare a casa, ho cambiato un po’ di lavori, città, gente da frequentare, e più o meno è sempre stato così. Mesi e giorni che si accumulano sempre più corti, sempre più bui, fino a quando a un certo punto si schiude qualcosa, viene un raggio più caldo, mi tolgo la giacca e smetto di sopravvivere.

Non è solo una questione di clima. Ricordo, a vent’anni, di aver accolto una mattina di freddo come fosse una carezza. Era febbraio e faceva sempre caldo, perché vivevo in Australia con mio fratello. Trenta gradi suonati ogni giorno. All’inizio c’era stato l’entusiasmo per il primo inverno della nostra vita in cui potessimo buttarci in mare, il primo Natale in costume. Poi però avevamo iniziato ad abituarci, a lavorare, a rintanarci in casa presto la sera e a iniziare a capire che la cittadina in cui vivevamo, a dieci chilometri da Perth e a diecimila da casa nostra, era un’altra Milano, solo col sole al posto della nebbia, l'oceano, animali strani e gli straccetti di pollo messi sopra la pizza. Che la nostra serenità, in sostanza, c’entrava molto più col dentro che col fuori, qualsiasi cosa volesse dire questo dentro.

A me era già venuta la solita voglia di evadere e fare conti alla rovescia, a lui non lo so, però eravamo scontrosi uno con l’altro, stretti in una stanza doppia con le pareti in lamiera in cui si sudava anche a stare fermi. Capitava che uno dei due, da dietro una montagna di suoi vestiti accalcati su una sedia, guardasse al disordine dell’altro e provasse fastidio, o che si arrivasse, alla fine di un discorso nato male, a dirsi che forse era tempo di dividersi: uno di qua e uno di là, in Africa India Nuova Zelanda, chissà dove, purché si smettesse di sopravvivere. Persino la colazione che avevamo imparato a fare lì, a base di uova e caffè solubile, aveva smesso di stupirci. Mangiavamo in silenzio, condividendo il tavolo con un nostro coinquilino australiano che masticava latte e cereali rumorosamente, con la testa nel telefono. 

Poi, una mattina, la pioggia, e noi felici come due cretini, a ricordarci finalmente chi eravamo dopo molte settimane di lavoro e poco altro. Discorsi, progetti, affiatamento.

Si era rotto un semplice schema, e a noi era sembrata una primavera.


Forse sono stati gli anni della scuola a inculcarmi il ritmo della sopravvivenza. Quegli anni grigi, di sveglie presto, freddo e resistenza, in cui si impara a tirare avanti e a farsi e farsi fare poche domande: non si ha voglia di essere stanati dagli adulti e le uniche con cui per forza tocca fare i conti, quelle al di là della cattedra, suonano come frecce da schivare nella corsa al sei in pagella. Studiavo poco e per dovere, mi allenavo a tennis senza intensità e a calcio tagliando gli angoli ai giri di corsa. Spesso dormivo più del necessario, e a chi mi chiedeva cosa avrei voluto fare da grande rispondevo che non lo sapevo. Contava solo l’oggi. Sbucciarlo poco a poco e superarlo guadagnandosi un domani migliore. Non c’era altro. Di vivere, insomma, se n’è sempre riparlato a giugno.


I campi da tennis scoperti dai palloni, il sudore che cola, i corpi abbronzati, l’odore di salamella ai tornei di calcio, mio padre che passa dalle bocce di rosso alle bottiglie di birra stappate con la forchetta. I pomodori, le pesche noci, le zanzare alle pizzate di squadra. Nella mia testa sono chiare, le immagini di quando si tornava a vivere. Prima ancora dei bagni in mare o in piscina, è sempre stato il disgelo primaverile a dirmi che ancora, per un altro anno, ero salvo. Dai tornei di tennis in giro per l’Europa tornavo sconfitto ai primi turni, col timore dei rimproveri di mio padre e il sogno di un mondo semplice: un pomeriggio al fiume con gli amici, i giochi con mio fratello, le settimane dai nonni in Calabria. Non sopportavo l’oratorio feriale, fare amicizia, gli animatori e tutte quelle cose che tentano, anche d’estate, di impilare i giorni in una sequenza di azioni e doveri che nulla avevano a che fare con la creatività. Mi chiedevo come mai, in quale punto dell’esistenza, si fosse deciso che vivere doveva coincidere col sopportare. E il peggio era notare come ciò che a me angosciava, per gli altri era il bello. Ciò che per me era fonte costante di malinconia, per gli altri era il normale ingranaggio delle cose.


Dev’essere stato lì, in quegli anni, che si è formata la mia inclinazione per il tempo vuoto e le giornate lunghe, quelle da riempire di qualcosa che ha inevitabilmente a che fare con se stessi. 

Dopo il periodo in Australia, ho iniziato a passare più tempo possibile qui in Calabria al paesino di mia nonna, dove mi trovo anche adesso. Qualche anno sono riuscito a starci anche più di un mese, qualche anno meno, qualche anno neanche un po’. Inizialmente, tornandoci da adulto, mi ero convinto ancora una volta che la mia attrazione riguardasse qualcosa di esteriore: la forma di quelle colline, il canto dei galli, l’eco delle motozappe che si infilano negli sterrati, il dialetto di mia nonna che parla con uno zio. Guardavo tutto con occhi nuovi e dicevo “è questa, la contentezza”. Sono stati anni, quelli, in cui se avessi avuto meno bisogno di lavorare magari mi sarei fatto i conti per venire qui a vivere, a fare di me uno spettatore incantato di questo mondo immobile.

Ma poi? Se anche fossi riuscito a badare alle faccende essenziali, cosa sarebbe stato di me, del mio bisogno di vivere e non sopravvivere?Un’estate dopo l’altra, ho capito che quello che cerco davvero qui non sono le cartoline, ma qualcosa che riguarda molto più un ritmo interiore che il paesaggio. Quassù c’è il tempo vuoto, la lunghezza di una giornata da riempire, la possibilità di digiunare. E certo, a dirmelo sono i cani randagi stesi all’ombra un pomeriggio intero, l’assenza di negozi, i filari di ulivi fermi al loro posto da un’eternità. Questo orizzonte sdraiato come una schiena verde, puntinata di case e strade morbide come pane. Tutte cose a cui penserò a febbraio, quando vorrò ricordarmi di essere vivo. Ma dovrò pensare anche a mia nonna che invecchia, i parenti che muoiono, il paese che si spopola, gli orti incolti. La giostra, un giorno, forse smetterà di girare, e non so chi di noi avrà ancora modo di fare questi mille chilometri, raccogliere le olive per l’olio e appendere i peperoni a seccare giù in cortile.


Quel che conta, adesso, è essere qui a ritrovarsi in questo fuori. Se c’è una cosa che ho capito, è che tutto ciò che vediamo, quello su cui ci viene voglia di soffermarci un attimo in più del normale, è qualcosa che già ci appartiene. Se sono qui, se da così tanti anni questa per me è casa, è perché qui c’è qualcosa che assomiglia a chi sono.

E allora apro un libro, bevo acqua fredda, faccio scorrere le ore. Il sole mi batte addosso e non scappo. L’ombra del davanzale si muove lenta sul terrazzo e tra quattro ore lo lascerà completamente assolato, e io sarò ancora qui, non so se mi spiego. 

A volte cado nella trappola del telefono e non la maledico, capisco di essere inquinato e aggiusto il tiro. Nel tempo della non sopravvivenza mi accorgo che tutto prende vita dall’imperfezione, e dal digiuno, e che tutto quello che rimane, alla fine di un inverno, è il modo in cui dal fuori si ritorna al dentro.



Chi scrive ringrazia sempre troppo poco chi legge. Per cui grazie.

Questa è una poesia che ho scritto qualche settimana fa, seduto per terra in mezzo a un prato:


All'ultimo aggeggio tecnologico, pensa A quel robottino, telefono, pezzo d'automobile Pensa al lancio

Dell'ultimo decadente ordine mondiale A quel suino in giacca e cravatta Col suo orologio multitasking Pensaci bene Nulla è più nuovo

Di quest'ultimo respiro, oggi, a mezzogiorno e un quarto E quest'altro, adesso, in questo prato Tra il fiume e il centro commerciale

L'aria muove le margherite e altri fiori viola

Non li so, va bene, i nomi dei fiori Ma si muovono

E i moscerini in vortice Sicuramente qualcuno

In qualche ufficio di là dal mondo

Sta avvelenando il futuro Ma questa formica, adesso

Mi cammina sulla tibia, si sposta

Tra pelo e pelo

E la lascio stare

 
 
 

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