La notte in cui l'hip hop venne al mondo
- Daniele Benussi
- 26 apr 2023
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 9 gen 2024
Pubblicato sul primo numero della rivista This is America - oltreoceano

"Ci sono solo due lasciti inesauribili che dobbiamo sperare di trasmettere ai nostri figli: ali e radici."
Se sentiamo la parola Bronx, probabilmente a ognuno di noi vengono in mente per prime cinque o sei cose: i palazzoni grigi, un paio di gang afroamericane che si fanno la guerra, la droga, qualche campetto da basket ritagliato sull’asfalto, una manciata di pistole, il battito incessante di certa musica, e nell’aria, cupa e ovattata, una sirena che non smette mai di suonare.
Eppure non è sempre stato così. C’è stato un tempo, almeno fino alla fine degli anni cinquanta, in cui nel Bronx ci vivevano i bianchi, gente borghese che lavorava in città e poi la sera faceva ritorno proprio lì, in quei palazzoni, per badare alla famiglia e coltivare il proprio sogno. Un posto tranquillo insomma, uno dei tanti quartieri residenziali in cui consumava la sua esistenza lo smisurato esercito di formichine che collaboravano all’inarrestabile crescita di una metropoli come New York.
Poi le cose cambiarono, e a fare del Bronx un inferno arrivarono gli anni sessanta.
Dopo diversi tentativi, fu avallato il progetto per la costruzione della Cross Bronx Expressway, un’autostrada che avrebbe attraversato tutto il Bronx da est a ovest collegandolo col centro di New York, e i lavori furono devastanti. Il quartiere divenne un cantiere a cielo aperto, le case si svalutarono e nel giro di qualche anno ci fu la cosiddetta “fuga bianca”: 300.000 persone svuotarono il Bronx e si trasferirono altrove, lasciando i palazzi deserti e una miriade di negozi senza lavoro.
A ripopolare il quartiere, sfruttando i prezzi crollati e le case sfitte, furono neri, ispanici, avanzi umani del Vietnam, e tutta quella gente che provava, con immensa fatica, a ritagliarsi un posto nel grande marasma americano. Il degrado aumentò, così come la violenza e i giri loschi. Nacquero le prime gang e, per via della svalutazione, i vecchi proprietari delle case cominciarono a dare fuoco alle proprie abitazioni, per provare a riscuotere le polizze assicurative.
Presto il Bronx divenne un fantasma, un fantasma che bruciava.
Fra le famiglie arrivate nel quartiere all’inizio degli anni ‘70, ce n’era una, la famiglia Campbell, immigrata da Kingston, Jamaica, che si sistemò in un palazzone di diciotto piani, al numero 1520 di Sedgwick Avenue. Erano in otto: padre, madre e sei figli, di cui il primogenito era Clive, un ragazzone alto quasi due metri che sarebbe stato destinato, di lì a poco, a cambiare per sempre la storia della musica.
Sì, perché se c’è una cosa che un giamaicano si porta via quando lascia il suo Paese, quella è proprio la musica, la sua musica. E Clive nella musica ci era cresciuto, ascoltando i dischi del padre e accompagnandolo, fin da piccolo, ai concerti ska e alle dancehall di tutta Kingston, in cui rimase stregato dai DJ jamaicani e dai loro “toasting”, i discorsi con cui davano il via alle serate.
Arrivato a New York, col suo fisico prestante, Clive cominciò fin da subito a primeggiare nello sport, tanto che i compagni lo soprannominarono “Hercules”. “Herc”, per abbreviare.
Fuori da scuola invece Clive si divertiva, come tanti altri suoi coetanei del Bronx, a fare graffiti, e presto si unì a un clan di graffitisti in cui cominciò a farsi chiamare “Kool”. “Kool Herc” divenne così il soprannome completo.
Ma c’era un altro momento, nelle sue giornate, in cui Herc non si trovava né a scuola né per strada, ma a casa sua, circondato dai vinili e dalla sua musica, con la quale sognava un giorno di arrivare anche lui ad animare una festa come quelle che aveva visto da piccolo, in Jamaica. E fra le quattro mura di camera si lasciava andare, un po’ ai ricordi e un po’ alla voglia matta di prendersi un futuro che nel Bronx sembrava veramente, ma veramente, un inutile vagheggio.
Però c’era un problema: a New York quella musica non interessava a molti, Bob Marley non era ancora Bob Marley e della Jamaica importava poco e nulla. Troppa spensieratezza, troppa salsedine. I ragazzi afroamericani avevano altri gusti, la vita di strada li spingeva a cercare ritmi più decisi, camminavano diverso e il loro accento non aveva contaminazioni. Eppure nemmeno la musica dei loro genitori gli bastava. Serviva qualcosa di nuovo, qualcosa che appartenesse soltanto a loro, i ragazzi del Bronx. Per arrivare ai loro gusti bisognava inventarsi qualcosa.
Allora Herc si mise lì, sempre nella sua cameretta, e cominciò a fare una cosa strana coi vinili, una cosa con le puntine.
Provò a individuare il momento più ritmato e ballabile delle sue canzoni preferite, e a isolarlo, sollevando la puntina del giradischi e riposizionandola ogni volta all’inizio di quel pezzetto che gli interessava, riproducendolo una, cinque, dieci, venti volte consecutive, e facendolo così diventare una canzone nuova, tutta composta dal suo segmento migliore, che chiamò “break”. Il primo brano su cui mise le mani fu Give It Up or Turnit a Loose, di James Brown, e quello che venne fuori fu qualcosa che nemmeno lui si aspettava. Era una bomba.
Nei giorni successivi comprò nuovi dischi da mixare, perfezionò la tecnica del break, e cominciò ad aver voglia di farla sentire a qualcuno. Una sera chiamò in camera sua la sorella, Cindy, che a quei tempi era poco più che una bambina. Era l’inizio del 1973. Ehi Cindy, senti qua. Herc fece partire il vinile dal ritornello, e poi, come aveva fatto per tutti quei mesi da solo, fece quella cosa con le puntine: finito il break voluto, cominciò a sollevare la puntina e a riposizionarla sempre lì, in quel punto, per cinque minuti. Cindy ascoltò per i primi due, dopodiché non riuscì più a contenersi, e cominciò a ballare come una matta.
Clive, ma che ti sei inventato?!?
Passò qualche mese. Arrivò la primavera del ‘73. Herc si comprò il suo primo impianto e continuò a mixare altra musica, musica nera, quella che non passava in radio: il soul, il jazz, il funk, e il sognò cresceva, si alimentava. Herc prendeva i brani, individuava i loro pezzi forti, ne isolava bassi e percussioni, e poi via, in loop, fino a diventare qualcos’altro, qualcosa di così travolgente, che era difficile rimanere fermi.
Ma non era tutto qua. Grazie all’impianto nuovo, Herc capì un’altra cosa: con due giradischi, e due copie identiche dello stesso vinile, si rese conto che poteva gestirli entrambi, abbassando la puntina di uno mentre sollevava e riposizionava quella dell’altro, e azzerando così del tutto le pause fra i break. Ora i suoi pezzi erano davvero nuove canzoni.
Nella cameretta di quel palazzone al 1520 di Sedgwick Avenue, stava nascendo qualcosa che lo stesso Herc non poteva nemmeno immaginare: stava nascendo l’hip hop.
Perché la nascita ufficiale avvenisse mancava una sola cosa: il primo evento. Ma per ora tutto era ancora circoscritto alla cameretta di Herc. Nessuno che non fosse sua sorella Cindy aveva sentito la sua tecnica, e soprattutto non c’era nessuna garanzia che anche ad altri sarebbe piaciuto sentire quella roba. Herc aveva messo le mani sui migliori pezzi di mostri sacri della musica nera, e non era per niente sicuro che là fuori la gente avrebbe apprezzato una mossa simile. E poi le dancehall, i toasting, i DJ: tutta roba jamaicana… Chi poteva dire che avrebbe funzionato anche in America?
Herc aveva appena compiuto diciott’anni, l’estate nel Bronx trascorreva torrida, e presto, come ogni anno in agosto, sarebbe arrivato il momento di organizzare la festa per il rientro a scuola.
L’idea allora venne a Cindy. Una sera di luglio si infilò nella camera del fratello che, come sempre, stava suonando.
Senti Herc, questa roba è una bomba, non può più rimanere qui dentro, e poi io vorrei rifarmi il guardaroba per l’autunno… Senti un po’, ma se la festa la organizzassimo qui?
Qui dove?! E poi che c’entra il guardaroba?!?
Qui a casa, da noi, in cortile: io organizzo tutto quanto e tu suoni i tuoi pezzi. Chi vorrà venire dovrà sborsare i quattrini del biglietto. Cinquanta centesimi i ragazzi e venticinque le ragazze. Vedrai se non ci rifacciamo il guardaroba tutti e due… Ho già parlato con papà ed è d’accordo!
Herc sentì un brivido, si fermò un secondo, tirò un’occhiata ai suoi dischi, e poi si girò verso la sorella.
Merda… Facciamolo!
Cindy corse subito da suo padre, e insieme di misero a preparare i biglietti d’invito. Li scrissero a mano, con un pennarello e una penna nera. Tra gli Special Guest, Cindy mise alcuni amici del fratello, che durante la festa avrebbero dovuto imbracciare il microfono e ripetere qualche frase improvvisata durante i suoi pezzi, senza neanche immaginare che sarebbero stati ricordati per sempre come i primi MC della storia.
Nelle settimane successive, quei biglietti, scritti a mano da Cindy e Mr Campbell, li acquistarono in trecento, e fra quei trecento, oltre ai compagni di scuola e agli amici di Cindy e Herc, ci furono anche un paio di curiosi, appassionati di musica, che decisero di partecipare perché in quell'invito sentirono l'odore di qualcosa di rivoluzionario. Erano due personaggi che quella sera sarebbero rimasti letteralmente folgorati dall’arte di Kool Herc, tanto che da lì in poi decisero di farla propria e diventare ciò per cui oggi li conosciamo, ovvero due dei più storici fondatori dell’hip hop americano: Afrika Bambaataa e GrandMaster Flash, ma questa è un'altra storia.
Ciò che conta qui, è che la sera del 11 agosto del 1973, alle ore ventuno, nella sala ricreativa del numero 1520 di Sedgwick Avenue, West Bronx, DJ Kool Herc si mise davanti a quelle trecento persone coi suoi due giradischi, e pronunciando il primo “toasting” della sua vita, diede il via a quella che verrà per sempre ricordata come la prima serata hip hop della storia.
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