Inettitudine
- Daniele Benussi

- 22 mar 2023
- Tempo di lettura: 13 min
Aggiornamento: 9 gen 2024

Immerso nella nuvola vaporosa della doccia, con le palle nella mano sinistra e un microfono immaginario nella destra, Silvano si sentiva una rockstar.
Il getto rovente, come un raggio d’adrenalina scagliato giù da chissà quale stella, si schiantava sulla sua chioma nera, e si divideva in centinaia di schizzi che dopo l’impatto rimbalzavano verso l’alto, verso sinistra, verso destra, a disegnare una perfetta aureola attorno alla faccia barbuta di Silvano.
La cassa mandava un pezzo dietro l’altro, e lui cantava, gridava, cacciava fuori ululati, strizzava gli occhi da artista consumato e immaginava una folla da aizzare, una massa di uomini e donne che si dimenava ai suoi piedi chiedendo a gran voce che quello show potesse non finire mai.
Tranquilla Bologna, urlava, te lo dò io il rock. E si batteva il petto col pugno, mentre attaccava una nuova canzone, e l’acqua veniva giù e risaliva in nebbia che si impossessava di ogni centimetro quadrato di quel bagno cieco.
Poi basta.
Non ci furono né bis né saluti: il concerto finì quando Laura decise di averne abbastanza. Si alzò dalla sedia in cucina, mosse i tacchi verso la porta dietro cui si stava tenendo lo show, la aprì, si fece inondare il trucco da una nuvola di vapore, e con tono incazzato impose la propria voce sia su quella della rockstar, sia su quella di Vasco Rossi, che si accingeva a intonare il ritornello di “Liberi… Liberi”:
«Ti vuoi muovere porca puttana?!»
Silvano ammutolì. Riaprì gli occhi, si vergognò, e di colpo smise di essere una rockstar, per tornare ad essere ciò che era: un uomo con le palle all’aria e poco, pochissimo tempo, per finire di lavarsi le ascelle.
Si chiese come fosse possibile che di tutta quella folla immaginaria, l’unica persona a non aver gradito l’assoluta e indubitabile potenza della sua prestazione fosse stata proprio la donna con cui era andato a convivere. Ma non trovò risposte, se non che quella povera ragazza aveva tutte le ragioni di questo mondo: l’orologio segnava le venti e trentasette, e alle ventuno erano attesi a cena a casa di una delle nuove colleghe di Laura.
Uscì immediatamente dalla doccia, si buttò addosso l’accappatoio e si accorse che le frasi di Vasco, che nel frattempo continuavano a svolazzare nella nebbia, si erano ormai spogliate di qualsiasi alone di poesia. Quelle che fino a pochi secondi prima venivano cantate con trasporto, erano diventate inutili parole provenienti da un inutile aggeggio elettronico, su cui Silvano, come un dio ferito, fece calare la punta del dito indice, e in un attimo fu silenzio.
Si vestì veloce, con la schiena ancora costellata di goccioline scampate all’abbraccio dell’accappatoio, mise un paio di pantaloni beige, la camicia bordeaux che piaceva tanto a Laura, si diede un paio di spruzzate di profumo sul collo e sui polsi, e in cinque minuti fu pronto.
Uscirono di casa alle venti e quarantadue. Lei gli chiese scusa per averlo trattato male. Lui, senza guardarla negli occhi, le disse stai tranquilla, sono io un cretino.
In macchina Silvano mise musica triste, un la minore che facesse da sottofondo ai troppi pensieri. Il suo umore era cambiato. Pensò alla sua doccia delirante, a come i suoi attimi di vita veramente vissuta si erano ormai ridotti a circostanze come quella. Erano spazi di libertà selvaggia, che sceglieva di concedersi in situazioni in cui non aveva alcun senso farlo, perché erano momenti nei quali, anziché dedicarsi a se stesso, avrebbe dovuto ritmare le sue azioni al placido passo che richiede una vita di coppia fatta di rispetto e attenzione verso l’altro.
L’ammissione mentale della sua stessa inettitudine, gli provocò un fastidio che si sforzò di sopprimere. Si sentì un idiota, e vide che Laura, lì accanto a lui, si era chiusa in un silenzio dettato dai sensi di colpa.
«Stai tranquilla - le disse - ho sbagliato io»
«Potevo dirtelo in un’altra maniera» rispose lei.
«Hai fatto bene a dirmi così, ho tirato troppo la corda»
«Macchè, stavi solo cantando»
Silvano si infastidì di nuovo: in realtà non stavo solo cantando. Mi stavo sentendo vivo come non mi capitava da un pezzo, mi stavo rovistando nelle vene per tirar fuori i grumi di noia e riportare il sangue a scorrere come dio comanda, stavo restituendo vigore a questo sacco di pelle addormentato che è il mio corpo, mi stavo liberando di me stesso, e tu, tu non l’hai capito. Ma tutto questo, Silvano, non lo disse. Allungò una mano sulla nuca di Laura e le accarezzò la testa.
«Non importa, almeno siamo puntuali?» le chiese.
«Sì, siamo puntuali».
Alle ventuno precise, con in mano una bottiglia di Montepulciano da tre euro, suonarono il campanello della nuova collega di Laura. Si sentì un cane abbaiare. Qualcuno aprì senza rispondere.
Gloria, la collega di Laura, si affacciò a una finestra per spiegare loro da che parte andare. Era felice di vederli.
L’appartamento era al secondo piano di una villetta a schiera color rosa carne, con tutt’attorno un recinto di siepi ben squadrate e un praticello appena tagliato. Era una di quelle case dove passa la squadra di giardinieri almeno un paio di volte al mese.
Sul pianerottolo cominciò a sentirsi odore di pasta sfoglia sbruciacchiata e di qualcos’altro, qualcosa di buono.
Quando entrarono in casa, il cane - quello che aveva abbaiato al citofono - andò verso di loro camminando a zig-zag. Non si muoveva come gli altri cani, andava lento e annusava in giro, come se gli occhi non gli bastassero. Silvano e Laura si fermarono qualche secondo sullo zerbino, per lasciarlo fare. Era un pastore tedesco.
Giunto nei pressi di Silvano, il cane si fermò ad annusargli le scarpe, e poi, con fare rilassato, gli imbrattò i pantaloni beige con una pesante zampata sulla coscia destra.
«Oddio Silvano scusami! Theo, non si fa!» urlò Gloria.
A Silvano girarono parecchio le palle, ma sorrise simulando compassione per l’animale, una compassione che poteva persino sembrare credibile, ma che a Laura non sfuggì:
«Proprio a lui che li odia i cani!» disse ridendo da sola.
«Mi dispiace… - disse Gloria - Theo cerca il contatto perché è cieco, purtroppo».
Ci fu un attimo di gelo. Silvano, oltre alle maledizioni verso il cane, si trovò ora costretto a nascondere anche l’imbarazzo per la frase di Laura. Gli balenò in testa di fare una battuta sul fatto che i cani non li odiava mica, perché lei se la portava sempre dietro. Ma scelse di non farla. Disse a Gloria di non preoccuparsi e, schiaffeggiandosi la coscia, provò a smacchiarsi i pantaloni.
Poi, dato che quella era la prima volta che li incontrava, strinse la mano sia a lei che al suo ragazzo, Lucio, che nel frattempo era sbucato da dietro la cucina.
«Niente male come esordio» fece Lucio per sdrammatizzare.
Niente male. Davvero niente male.
Laura, nel tentativo di ridimensionare la figura di merda appena fatta, appoggiò la mano sulla testa pelosa di Theo, e la fece scorrere avanti e indietro in un paio di carezze forzate. Theo si allontanò indifferente.
Finiti i saluti Lucio tornò ai fornelli.
Gloria invece, da buona padrona di casa, fece fare a Silvano e a Laura il giro delle stanze. Cominciò dalla sala, lì davanti all’ingresso, con la credenza straripante di fotografie ben incorniciate e le pareti dipinte di un giallo entusiasta. Silvano notò il televisore, grande come un parabrezza, Laura il tavolino che gli stava davanti, con la superficie in vetro e i bordi ritagliati in curve armoniose.
Poi salirono al piano di sopra. Gloria gli mostrò la camera matrimoniale, il bagno con la vasca idromassaggio, lo studio in cui Lucio lavorava nei giorni in cui riusciva a gestire l’azienda da casa, il tapis-roulant con lo schermo touch insensibile alle gocce di sudore, la stanza delle scarpe, che per non scatenare invidie in Laura indicò soltanto da fuori, e, per ultima, un’altra cameretta, con un letto singolo già pronto.
«E questa stanza? - chiese Laura briosa - la famigliola si allarga?»
«Chissà- ridacchiò Gloria - diciamo che ci stiamo provando».
A Laura si illuminarono gli occhi. Si girò verso Silvano per cercare la sua complicità e misurare, attraverso un suo sguardo o una sua espressione, a quale distanza fossero, loro due, anche soltanto dall’idea di avere il pensiero di progettare, magari, un giorno, di mettere al mondo un pargolo.
Anni. Anni luce: questa fu la risposta che suggerì il sorriso nervoso di lui. Laura incassò, e Silvano andò subito a cercarle la bocca per un bacio riparatore.
La recuperò immediatamente, ma sentì un peso nel petto.
Finita l’esplorazione, tornarono giù. Lucio aveva preparato l’aperitivo: quattro spitz con le fettine d’arancia incastrate sul bordo dei bicchieroni e una teglia di mini croissant farciti di salsiccia e formaggio. Erano buoni.
«E tu come mai cucini così bene?» chiese Laura a Lucio.
«Bene è un parolone, diciamo che me la cavo»
«Ste briochine sono una droga!» esclamò Laura.
«In realtà è merito mio - intervenne Gloria - Da tre anni il sabato e la domenica Lucio si mette sempre a cucinarmi qualcosa. È così che ha imparato»
«Beh sì, in effetti è così» ammise Lucio sorridendo. Poi si avvicinarono uno all’altra, e si diedero un bacio pieno di intesa. Laura e Silvano li guardarono. Ci fu un attimo di silenzio.
«Anch’io con Silvano ho avuto lo stesso effetto - disse Laura con tono provocatorio - da quando viviamo insieme, ha scaricato tutte le app di delivery possibili». Scoppiò in una risata amara. Silvano si sentì punzecchiato.
«E dai, non dire così che non è vero…»
«Ah no?! E quando sarebbe l’ultima volta che mi hai cucinato qualcosa?»
Lui ci pensò un attimo, non rispose. Fu costretto ad abbassare la testa. Aveva ragione Laura: dall’ultima volta che le aveva cucinato qualcosa era passato così tanto che non riusciva più nemmeno a ricordare in che occasione lo avesse fatto.
Eppure, da ragazzo, spadellare gli piaceva. Ai tempi del liceo, vedere gli altri godere di quello che preparava con le sue mani, lo faceva sentire bene, tanto che per un periodo aveva iniziato a rispondere “il cuoco” a chi gli chiedeva che cosa avrebbe voluto fare una volta finita la scuola.
Poi però era arrivata l’università, lo studio, le serate a buttarsi via, i concerti, un lavoro del cazzo dietro l’altro, la noia, i venticinque anni, e poi Laura, conosciuta da ubriaco durante un addio al celibato di un amico. E adesso chissà, chissà dove se n’era andata, la voglia di cucinare. Mentre se lo chiedeva, Silvano ingurgitò la sesta briochina, prosciugò avidamente lo spritz che gli restava nel bicchiere, e chiese a Lucio di aprire la bottiglia di vino che avevano portato. Sentì di averne bisogno.
Mentre Lucio finiva di preparare il primo, Laura e Gloria si erano messe a parlare delle loro cose. Cominciarono a parlare di lavoro, delle colleghe, delle vacanze estive, quelle passate e quelle da programmare per l’estate a venire. Gloria mostrò una mega carrellata di foto dell’ultimo viaggio fatto con Lucio, un mese prima, in Portogallo. Raccontò di acque verdissime e sabbie dorate, del sentiero delle Sette Valli Sospese, dei piccoli villaggi di pescatori affacciati sulla costa rocciosa sopra Cabo Sao Vicente, l’estremo sud-ovest d'Europa, lì dove i grandi esploratori portoghesi del 1500 contemplavano l’oceano sterminato prima di salpare. E poi di Sintra col suo castello, del marasma malinconico di Lisbona. Dei pasteis de nata.
«Quelli li dovete provare - disse Gloria - sono fottutamente divini!»
«Eh… Magari, prossimo viaggio Portogallo- rispose Laura - se Silvano si decide a prendere le ferie!»
Silvano, che nel frattempo trangugiava vino e si era messo a rifilare pezzetti di pane a Theo cercando di superare l’ostilità verso i cani, si sentì chiamato in causa.
«Ogni anno la stessa storia, non me le danno prima di luglio!»
«Chissà perché i tuoi colleghi le prendono sempre prima di te»
«Se vuoi puoi andare con loro» disse lui ridacchiando. Gloria rise, Laura no.
Silvano tornò ad accarezzare il cane: nella cecità di quell’animale, nella difficoltà a cui era costretto dalla menomazione, c’era qualcosa che glielo rendeva fraterno.
Lucio servì la cena. Risotto al taleggio e aceto balsamico, pollo impanato e patate arrosto. Mangiarono. Stapparono altre tre bottiglie. Si dissero cose di cui non è importante ricordarsi. Raramente si dicono cose importanti durante una cena.
Poi, sorseggiando il limoncello fatto da Lucio, mezzi ubriachi, si misero a giocare a Taboo. Fecero un paio di partite divisi a coppie: Laura e Silvano contro Lucio e Gloria, ma non era divertente. Cambiarono squadre. Fecero uomini contro donne, e qualcosa, chissà cosa, cambiò. Le partite iniziarono ad essere agguerrite. Ne fecero tre, quattro, cinque, sette, dieci. La clessidra faceva su e giù in continuazione.
Per un attimo, Silvano sentì di nuovo un flusso di energia attraversargli le arterie, correre deciso verso l’alto, e arrivare su fino al cervello: aveva una gran voglia di vincere, di affermarsi con distacco, di dimostrare la sua superiorità su Laura. Il terzo bicchierino di limoncello gli aveva tolto i freni, e ad ogni parola che lui e Lucio indovinavano, scattava in piedi in un’esultanza barbara, con gli occhi spiritati e le vene del collo gonfie.
Vincere, e farlo contro Laura, per Silvano sembrava voler dire riappropriarsi della certezza del proprio valore, un valore che, ormai da tempo, non era più in grado di riconoscere a sé stesso.
Lucio e Gloria ridevano, convinti che a muovere quei gesti spropositati fosse soltanto il troppo alcol che gli circolava in corpo, oppure chissà quale attitudine al gioco.
«E chi l’avrebbe detto che eri così competitivo Silvano?!» dicevano divertiti.
E lui provava a contenersi per qualche giro, ma poi tornava a perdere il controllo. E Laura lo guardava, un po’ schifata un po’ innamorata, aspettando il momento in cui quella pantomima sarebbe arrivata alla sua conclusione, e la vergogna si sarebbe impossessata di Silvano per riportarlo ad essere il ragazzo che lei conosceva.
Quel momento arrivò. E di preciso arrivò quando Lucio, per far indovinare la parola “CASTANI” al suo compagno di squadra Silvano, gli formulò la domanda «Di che colore ha gli occhi Laura?», ma non ottenne risposta. Attorno al tavolo piombò un silenzio imbarazzante. Come poteva Silvano non ricordarsi il colore degli occhi di Laura? Persino Lucio, che la conosceva da un paio d’ore, li aveva memorizzati… Tutti, a parte il cane per ovvi motivi, fissavano Silvano, che preso alla sprovvista si trovò a guardarsi le scarpe nel mezzo di un labirinto dal quale doveva rapidamente capire come uscire. Le opzioni erano tre. La prima: sparare un colore a caso fra i tre che riteneva più plausibili, nella speranza di azzeccare quello giusto. La seconda: girarsi verso Laura e guardarle gli occhi per assicurarsi di dare la risposta esatta, dando prova però di aver avuto dei dubbi. E la terza: lasciar scadere il tempo nell’imbarazzo generale e, dopo aver visto la reazione incredula di Gloria e Lucio, e quella ben più incazzata di Laura, fingere da bontempone che fosse tutto uno scherzo.
Scelse la terza, e tutti, Laura compresa, anche se non pienamente convinti, non poterono che fidarsi di lui. Con una mossa da abile stratega, SiIvano si era tirato fuori da quella situazione di merda, ma aveva cominciato a provare vergogna. Nell’aria pesante di quella cucina, si era ormai infilata una nuvola d’imbarazzo che suggeriva a tutti e quattro una cosa sola: il tempo di giocare era finito.
La scatola di Taboo tornò a prender polvere nella sua cassapanca, Laura e Silvano si infilarono le giacche, e nel giro di qualche minuto, dopo aver debitamente ringraziato Gloria e Lucio e aver dato una pacca sulla schiena al loro cane cieco, tornarono alla macchina.
Non c’era niente da dire. Era stata una serata che li aveva suonati come due piatti da batteria. Silvano pensò che fosse inutile tentare di giustificare a Laura i propri silenzi e le proprie esuberanze, così come tirare di nuovo in ballo la questione del colore degli occhi, da cui sarebbe sicuramente uscito con le ossa rotte. Laura non sapeva neanche cosa pensare, se non che quello che aveva visto in azione quella sera, quel ragazzo così ostile, freddo, e gratuitamente irascibile, non fosse il vero Silvano, ma soltanto una sua versione deformata dall’eccesso di stress e vino, una caricatura che non aveva nulla a che fare con la realtà.
Si misero in macchina.
Senza nemmeno doverne parlare, avevano stretto un tacito accordo sul fatto che quella domenica sera sarebbe dovuta finire così, camminando lenta e in silenzio verso il lunedì mattina, verso l’inizio di una nuova settimana di lavoro, di distrazioni, di partite di calcio da seguire, programmi in televisione, libri lasciati a metà, cene insulse, magari una scopata, il venerdì, per convincersi che va tutto bene. E poi via, ancora, dritti e sbiaditi per quel piattume che vestivano stretto, ma di cui non sapevano più fare a meno.
E invece no.
Fermi alla precedenza di una rotonda, ormai a due chilometri da casa, sentirono un botto esplodere dietro di loro. Chiusero gli occhi per riflesso. I loro corpi furono catapultati in avanti da una forza devastante. La testa di Silvano fu scaraventata verso il volante, ma l’impatto fu scongiurato dallo strattone della cintura di sicurezza, che riuscì a scattare appena in tempo. Laura, invece, sbatté la fronte contro il cruscotto e cominciò a perdere sangue.
Li aveva tamponati un furgone.
L’autista del furgone, un ragazzo per bene che consegnava gelati, si precipitò a vedere come stessero Silvano e Laura. Silvano stava bene, Laura invece aveva preso subito un colore giallognolo, e non appena vide il suo stesso sangue colarle giù per il collo e poi imbrattarle i vestiti, ebbe un paio di capogiri e finì per perdere conoscenza.
Il ragazzo del furgone iniziò ad agitarsi, era spaventato. Prendeva il viso di Laura fra le mani e provava con degli schiaffetti a svegliarla. Nel frattempo continuava a scusarsi con Silvano, che invece se ne stava lì, fermo al suo posto, ancora mezzo rincoglionito per la botta, a chiedersi se ci fosse qualcosa che dovesse fare. Scese dalla macchina e prese una boccata d’aria fresca che lo riportò alla lucidità. Si sentì avvolgere da un brivido d’adrenalina. Per un attimo provò qualcosa di simile al piacere, nel pensare che l’incidente avesse scosso l’ordinario scorrere delle cose. Si vergognò.
Forzandosi in un atteggiamento apprensivo, corse verso l’autista del furgone, che non si dava pace e provava a rianimare Laura. La guardò per un istante. Nel vederla spalmata sul sedile, con la testa abbandonata su una spalla e priva di conoscenza, Silvano fu colto da una sensazione di inaspettato distacco, come se quel corpo apparentemente privo di vita avesse smesso di riguardarlo da vicino. Non sentiva nessun trasporto, nessun impulso, nessuna disperazione. Tutto questo non aveva niente di normale. Eppure era innegabile: Silvano, per quanto lottasse nei pensieri e nelle azioni con l’idea che non fosse così, non stava provando alcuna preoccupazione per Laura. Si sentì una merda, ma non fu in grado di attribuirsi delle colpe. Fece il minimo indispensabile: chiamò il 118 e diede all’operatore ogni indicazione che gli veniva chiesta.
I soccorsi ci misero poco ad arrivare. In dieci minuti avevano già sistemato Laura su una barella, l’avevano attaccata all’ossigeno e le avevano ridato conoscenza. Silvano, pensando che tutti i presenti si aspettassero questo da lui, le diede un bacio sulla guancia e le strinse forte una mano.
«Stai tranquilla, è stata solo una botta» le disse.
I soccorritori caricarono Laura sull’ambulanza e spiegarono a Silvano che l’avrebbero portata nell’ospedale più vicino per fare qualche accertamento. Lui disse che avrebbe compilato la constatazione amichevole e poi sarebbe corso in ospedale.
L’ambulanza, con le sirene accese, si allontanò nella notte.
Silvano e il ragazzo del furgone compilarono la constatazione velocemente, senza nessun intoppo, e decisero di non chiamare la polizia, ché non ce n’era bisogno. Non ci fu neanche bisogno del carro attrezzi: il motore del furgone si riaccese subito, e dopo aver fatto a SIlvano i migliori auguri per Laura, il ragazzo se ne andò.
Erano le due di notte. Sbattuto sul sedile della sua utilitaria malmenata, Silvano non avviò il motore. Non partì per l’ospedale. Non seguì l’ambulanza. L'unico suo slancio vitale fu quello di prendere in mano il telefono e far ripartire “Liberi... Liberi” di Vasco da dove l’aveva interrotta dopo la doccia di qualche ora prima.
Tirò giù lo schienale, e si mise a contemplare la meschinità del suo vivere. Pensò a Laura, che su un lettino d’ospedale aspettava che il suo ragazzo venisse a riportarla a casa. Pensò a come, ormai da qualche anno, ogni suo sforzo di reinfilarsi nel cuore dei sentimenti, era finito per fallire miseramente. Sentì di aver toccato un fondo da cui non sarebbe stato possibile risollevarsi tutto intero, non senza caricarsi in spalla i brandelli di se stesso e ricominciare tutto da capo.
Quella voglia, la voglia di vivere
Quella voglia che c’era allora
Chissà dov’è, chissà dov’è
Vasco finì di cantare. Lui chiuse gli occhi. Si addormentò come un pugile ammaccato.
Ogni tanto, una macchina sfrecciava accanto alla sua, la illuminava per qualche secondo, e poi scompariva via veloce, abbandonando di nuovo Silvano al suo buio.
Qualche ora più tardi il telefono si mise a vibrare. Silvano non sentì niente.
Il telefonò continuò a vibrare, e lui a dormire.









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