Il fiume e il comodino
- Daniele Benussi
- 1 mar 2022
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 11 gen 2024

Vie che si aprono verso spazi più distesi, forme più dolci, linee di orizzonti ben visibili.
In quella parte di città, verso le sei di sera, il suo appuntamento quotidiano coi mucchi di nuvole e i pappagalli che volano sui tetti ricoperti da una colata di rosso proveniente dal sole che ruzzola giù verso il dorso dei colli sdraiati intorno all'agglomerarsi di case, di strade, di vita umana.
È da qualche settimana, forse qualche mese, che P. si diverte ad appoggiare i tormenti sul comodino e a uscire di casa così, senza aspettarsi assolutamente nulla dal mondo esterno e da tutto ciò che lo abita. Occhi assetati, un po' di musica nelle orecchie e nessun posto dove andare.
Proprio così gli succede di sorprendersi, di stupirsi di ogni piccola diavoleria che accade là fuori. Un esercito di dettagli a cui riesce a prestare attenzione. L'esile ma incessante susseguirsi delle minuscole cose di cui si compone il gran mosaico.
La leggerezza del farsi domande scaccia via il prurito dell'esigere risposte, ogni senso si accende e comincia a vibrare, il desiderio di capire lascia il suo posto all'eleganza dell'intuire. Il mondo gli sembra una grande canzone da decifrare, il perfetto slancio creativo di un artista che per l'eternità potrà divertirsi a sentire come gli esseri umani interpreteranno la sua opera. E nessuno di loro avrà ragione. Però ognuno potrà dire la sua, e questo, mentre cammina pensando, mentre pensa camminando, gli pare una gran bella cosa, tanto che anche lui si mette a farla. Sa di non poter sapere se quello che lui ritiene vero sia effettivamente vero, però ipotizza. Ipotizza sui misteriosi propositi dei cani che annusano i marciapiedi, sulle scoglionature di quell'uomo che spalma colla su un manifesto, sulla maestosità di una lumaca che striscia sul ciglio della strada. Ipotizza che nonostante le auto le sfreccino accanto lei non si senta lenta, o che magari si senta persino veloce, felice della sua andatura. Ipotizza sul suo eventuale stato depressivo nel caso in cui fosse iscritta a un social network di ghepardi, o alla fortuna che possiede nel non poter guardare in su e vedere con quale velocità si spostino uccelli e aerei. E poi ipotizza anche che magari invece lei lo faccia, che sappia guardare su e che nonostante questo riesca a non invidiare nessuno. Ipotizza la sterminata saggezza delle lumache, il loro andare a fondo nelle cose, la loro presenza nella frenesia del mondo contemporaneo come premio da parte dell'evoluzione all'irriducibile importanza della lentezza, della calma, dell'andare piano.
La realtà è un fiume che non smette mai di scorrere. E questo gioco lo diverte.
Posando i passi sull'asfalto tiepido sente il petto espandersi, ventate calde di pensieri che nascono dentro e poi decollano a inseminare il cielo, frammenti delle canzoni della sua vita che cominciano a camminargli nelle vene in giro per il corpo, una processione che gli inizia a scaldare la parte alta dello stomaco e finisce per nutrire un pianto di nostalgia per il volto caldo di sua madre. Da quanto tempo non la vede vivere, e come vorrebbe affondare l'impasto rustico dell'uomo che è diventato sotto il suo abbraccio eterno. Non si smette mai di essere figli. Può non essere quella che ti ha dato la vita, ma da qualche parte una madre ce l'hanno tutti.
Mentre il sole divora i crinali, in quelle sei di sera che si fanno sette e poi otto e la voce di Micheal Kiwanuka comincia a sospirare malinconia sulle note di Home Again:
Di nuovo a casa
Di nuovo a casa
Un giorno lo so
Mi sentirò di nuovo a casa
E poi le otto che si fanno buio, e il mondo che smette di parlare perché iniziano a farlo i ricordi, le visioni senza contorni e tutta quella roba che qualche anno prima si era impossessata della sua anima affamata di identità, di indipendenza.
Ma cos'era? Erano le prime sirene di un pianeta sconosciuto ma di cui aveva sempre percepito l'esistenza.
Era come un mormorio all'altezza dello stomaco, non si può dire se al suo interno oppure lì, sulla superficie che lo riveste. Era la poesia che aveva incontrato, così per caso, o forse perché in fondo non era altro che una parte di lui che prima o poi, come ogni altra, gli toccava scoprire. Così come il neonato che un tempo era stato aveva scoperto di avere piedi, orecchie e naso, ora aveva scoperto la poesia. E non erano parole, non era un ammassarsi di frasi che finiscono con suoni simili, no.
Erano gli occhi un po' incurvati di quel professore, era quel film francese in quel cinema vuoto in mezzo a Milano alle due di un pomeriggio d'inverno, quel sottovuoto con dentro avanzi freddi da trangugiare sugli scalini della chiesa affianco all'università, le dita unte che toccavano le pagine dei libri di Rimbaud, di Jean-Claude Izzo, di Carver. Le giornate passate senza dire una parola a nessuno. Senza ridere. Era chiedere a se stesso quando fosse stato l'ultimo sorriso. Era non ricordarselo, ma comunque darsi una pacca sulla spalla e continuare a vivere imparando la gentilezza. Era l'autobiografia di Gandhi che gli divorava il cuore mentre il vagone di una metro lo riportava a casa stanco in mezzo al fiato pesante di centinaia di altri esseri umani stanchi. Era comunque immaginare le loro vite, i figli con cui provavano ad andare d'accordo, le storie d'amore che li staccavano da terra.
Tutti dovrebbero avere una foto di Gandhi appesa al muro.
E poi le corse feroci, al buio, nella nebbia di quelle sere dove dentro il petto sentiva di avere più di un cuore che batteva, ne aveva almeno quattro o cinque.
Erano i bicchierini di thè caldo in quell'ostello di Istanbul, le storie pazze dei sultani e delle loro moschee. Le scarpe che calpestavano la costa portoghese in quell'estate dove iniziò ad avere voglia di se stesso. E il caldo che faceva. Le spalle rosse screpolate la pelle che bruciava le farfalle nella testa la voglia di musica di vivere di concerti di spaccarsi di vita e disconoscere la carcassa di chi era stato fin lì per cominciare ad essere finalmente un uomo che si sveglia e si lava la faccia consapevole che un giorno sarà il succulento pasto dei vermi che verranno. Perchè tutto verrà e in tutto ci sarà bellezza. Tutto. Ed era anche quello, quel romanzo di Manuel Vilas che non è riuscito a finire perché scritto così tanto bene da risvegliare in lui qualcosa che dà fastidio, una ruga di malinconia nel cielo incontaminato che stava provando a dipingere. Sempre con le mani, quelle mani che tutto volevano toccare.
Ma cos'altro era?
Era sua nonna che salutava tutti e imparava a ritornare al paese della sua vita senza più il nonno. Era suo nonno che continuava a vivergli dentro senza dire una parola. Ma se ci pensa... Se ci pensa gli arriva addosso una brezza calda e una gran voglia di starsene lì a trovare il tempo di non fare proprio niente, che non c'è mai niente di davvero importante da fare.
Erano le ragazze che non capivano fino in fondo chi fosse, le persone che dicevano non avrei mai detto che tu, non sembri un tipo da e tutte quelle cazzate che dice chi pensa che le persone siano solo persone.
Era quel non sapere nulla di chi stesse diventando.
Un velo di mistero che si era messo tra lui e il mondo e che non faceva altro che renderlo umano, un animale come quelli che vedi al parco o in qualche prateria paludosa intenti ad essere soltanto ciò che sono, nè più nè meno, finalmente. Vivi senza sentirsi in colpa, pieni di identità, degni del piacere della contentezza senza aver fatto nulla per meritarla.
Era aver voglia di abbandonare qualunque gara proprio là sul via, quando la corsa dei poveracci stava per iniziare.
Era piangere e poi ridere del non farne parte.
Ma sì, era tutto questo.
Mentre il buio si fa notte, la strada si addormenta, le case si accendono, P. sale le scale. Rientra che è ora di cena.
Sul comodino ancora il gomitolo di tormenti. Li aveva appoggiati lì, e loro mica se ne vanno.
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