Bottiglie vuote
- Daniele Benussi

- 25 lug 2021
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 11 gen 2024

Quando mi svegliai era già tardi. Doveva essere mezzogiorno, o anche qualcosa in più. Lei era accanto a me e fissava il soffitto con l’aria di chi ha pensato troppo. Quando mi vide sveglio si voltò verso di me e fece un cenno con le labbra che mi parve introdurre un sorriso. Non sorrise. Giù dal letto imperavano, vuote, le tre bottiglie di rosso scrauso che ci avevano innaffiato le malinconie della nottata. Si era parlato di tutto, credendo che ciò di cui parlavamo avesse importanza, ma la realtà è che non esiste mai nulla di davvero importante di cui parlare. In totale balìa delle nostre anime, ci si erano dette, senza davvero ascoltarci, tutte quelle cose che si dice chi non si vede da quattro mesi. Poi si era fatto sesso. Un sesso totale. Di quella notte non ricordo niente di preciso, ma so di aver bramato con tutto il mio essere di entrare nel suo corpo e rimanerci per sempre. Sentii che dentro di lei avrei potuto conquistare l’universo, così cercai di rendere eterna quella scopata. Gestii i su e giù per due selvagge ore, guardandola negli occhi e rallentando quando serviva per allontanare un orgasmo che temevo come si teme un addio. Fu in quel paio d’ore che dovette formarsi nella mia testa l’idea che il genere umano - tutto il genere umano - vive di illusioni, più o meno durature. La nostra, quella notte, durò un paio d'ore. Poi l’orgasmo.
Al risveglio l’aria era pesante e noi, nudi e abbandonati dalle nostre anime disilluse, in quel letto, eravamo tornati a essere soltanto due sacchi di pelle. Il sole di luglio penetrava violento fra le fessure delle persiane e creava squarci di luce che trasmettevano indolenza. Espressioni, difetti corporei, misteri: il sole, a volte, ne vuole sapere davvero troppo di noi. Bastardo.
Ad ogni modo, qualcuno prima o poi avrebbe dovuto dire qualcosa.
«A cosa pensi?» Le chiesi. Non rispose. Glielo richiesi. Ancora silenzio. Le scese una lacrima. Il mio sguardo rimbalzava sui suoi occhi e schizzava via lontano, fino a perdersi in un vuoto oscuro. Mi sentii sparire. Qualunque cosa avessi detto, sarebbe stata completamente priva di credibilità. Esistono, vero?, Quei momenti in cui ti senti così sporco che potresti affermare qualunque cosa o il suo contrario, e in ogni caso la frase risulterebbe assolutamente debole, falsa, torbida? Cazzo se esistono. Si può tranquillamente dire che nella vita conti un venti percento scarso cosa si dice, e un ottanta abbondante come lo si dice, e che dentro di te sai esattamente se una cosa che stai per dire verrà presa per vera o meno. Questo però non farà differenza, perché in ogni caso non saprai startene zitto: se ti senti credibile vorrai esternare la tua verità; se ti senti sporco, sarà quella stessa sporcizia a fare da tappeto rosso alla tua cazzata. E così andò.
«Siamo stati bene, mi dici che c’è che non va?» «Non lo so, non credo di farcela» Rispose lei in ritardo. «Ti ho pensata sempre in questi mesi. Diamoci tempo, vediamo se funziona» Mi ascoltai dire. «Vorrei tanto farlo, ma mi pare di camminare all'indietro anziché in avanti»
«Che significa?»
«Significa che mi ero promessa di non ricascarci più, e invece guardaci qui»
Aveva ragione. Mi ero promesso anche io la stessa cosa in quei mesi. «Appunto, guardaci qui. Se siamo qui è perché forse lo vogliamo, no?» Mentii.
Tremai al pensiero che a guidare quelle mie frasi non ci fossero intenti nobili ma soltanto la voglia di scoparla ancora una volta, come per riaffermare un possesso carnale. «Mi sento vuota, forse non avrei dovuto rivederti» «Ah, è questo che pensi?»
Altro silenzio. Mi sentii minuscolo, inetto e misero. La distanza che ci separava era ormai incolmabile, ma riuscì comunque ad aumentare quando lei si alzò dal letto e spalancò la persiana, inondando definitivamente la stanza di una luce molesta che mi rese nervoso. Mi chiusi in me stesso. In quelle situazioni non ho mai trovato appigli che non avessero a che fare con la musica, e neanche quella volta fece eccezione. Nei quattro mesi in cui eravamo stati lontani avevo letteralmente fagocitato Tunnel of love di Bruce Springsteen dalla prima all’ultima canzone, mi ero disidratato di lacrime e l’avevo eletto per distacco la raccolta di testi più intensa della storia della musica. In quell’album c’è tutto ciò che di vero si possa dire sull’amore, per cui accendere la mia inseparabile cassa portatile e far partire One step up fu l’unica cosa che riuscii a fare. Mentre mi vestivo cercai nelle parole della canzone la forza per pronunciare il definitivo addio. Quando mi allacciai la seconda scarpa Bruce stava finendo di intonare la terza strofa. Cantava di un uomo che aveva perso la bussola e che guardandosi allo specchio non vedeva l’uomo che avrebbe voluto essere. In qualche modo mi sentii meno solo. Poi la canzone finì e lei prese a guardarmi con aria impaurita. Tutto ciò che riuscii a fare fu baciarle le labbra e gli occhi, prima uno e poi l’altro. Tremava. Raccolsi le chiavi e uscii come un cane randagio. Immaginarla sola dietro a quella porta mi fece male al cuore, ma ormai non sarei più tornato indietro.
In macchina affogai nelle lacrime.









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