Una palestra di amorevole pazienza
- Daniele Benussi
- 3 set 2021
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 9 gen 2024
Pubblicato sulla rivista Fantastico! al link Una palestra di amorevole pazienza | by Fantastico! | Fantastico! | Medium

Le otto di sera. Ho già attraversato più di mezza Italia sopra un pullman. Chiappe sfatte, chiappe tremendamente appiattite da questa posizione che per l'essere umano non è natura. Solo chi sta seduto per una manciata di ore può prendere piena coscienza di quanto l'uomo sia fatto per la posizione eretta.
Come sempre, la comodità mi spaventa.
La signora in terza fila è salita a Salerno, si è dimenticata la borsa frigo dentro al bagno della stazione, ha per questo maledetto un santo il cui nome mi è di difficile interpretazione un numero di volte che oscilla tra le sette e le dieci - ora non ricordo - e alla prossima sosta dovrà comprare qualcosa con cui rimpiazzare il caciocavallo pepato che era destinato a suo cognato Pinuzzo e che, insieme a tutta la borsa frigo, si è infelicemente disfatto di lei dentro il bagno della stazione di Salerno. Volevo saperne di più, ma mentre la signora iniziava a ipotizzare le alternative al caciocavallo pepato un tizio in quarta fila le ha bussato sulla spalla, anche abbastanza delicatamente, e le ha detto per favore signora abbassi quella cazzo di voce che sto cercando di dormire, per cui non ho altre informazioni.
Da qui l'autostrada pare brulicare di automobili, e quindi degli uomini che esse contengono. Laggiù, in fondo al grande marasma brulicante, proprio in mezzo alle due carreggiate, di chi va e di chi viene, il tramonto.
Per un attimo smetto di vedere le automobili e, come dotato di raggi X, comincio a immaginare - a vedere - solo gli uomini al loro interno: sospesi in aria seduti sul nulla, col culo a un metro e mezzo da terra e le braccia tese verso un volante che non c'è più, verso la linea dell'orizzonte rosso. Una fiumana di zombie dall'aspetto sonnambulo, forse felici, calamitati da un sole di fuoco.
Rimango per un attimo orgoglioso di questa mia visione dettata dalla noia, una noia dolce, fertile, umida. Arrivo quasi a ritenerla una visione poetica, poi mi ricredo.
Ho già la testa altrove. Dal mio punto di vista attuale la vita non mi pare altro che un'immensa prova di resistenza. Sì, ma non quella verso i grandi potenti della terra che impongono condizioni di vita poco inclini alla realizzazione di sé stessi, macché... Resistenza alla puzza di ascella, piuttosto. La mia prova di questo istante consiste infatti nel respirare a pieni polmoni, senza titubare, il fetore di ascelle sudate del mio vicino, che ha pensato bene di sollevare e appoggiarli al sedile di fronte, eliminando così ogni possibile interferenza fra le sue ascelle e le mie narici. Ci rifletto un attimo. FInisco per persuadermi che anche da questa situazione apparentemente tragica io possa trarre qualcosa di buono. Ho due strade: cominciare a contorcere il naso fra pollice e indice per salvarmi l'olfatto dalla minaccia fetida, oppure smettere di oppormi e semplicemente odorare, Come fuori dal fornaio all'alba, accogliere quell'odore dentro di me come unico destino possibile dei minuti a venire. Smetto di considerarlo un puzzo. Inalo con forza ogni sua molecola. Sento qualcosa calmarsi dentro di me. Può darsi, mi dico, che imparare a vivere sia un po' questo: respirare l'odore del pane caldo e quello di ascella pezzata senza fare differenza, senza trasalire. Una grande palestra di amorevole pazienza: questo è liberarsi, questo è vivere. Nel semplice atto di respirare l'odore di ascelle al mio vicino sento di accogliere la sua essenza e abbracciarla. Qualunque sia la sua etnia di provenienza, la sento vicina. Vedo il suo passato scorrermi negli occhi, le sue lotte per sopravvivere, il suo vagare incerto nel gran troiaio. Respiro, ancora. Le mie narici, voragini di pazienza, inaugurano un corridoio umanitario dentro di me di cui non sapevo nulla. Le ascelle di questo tizio imperano ormai nei miei polmoni e dicono al mio cervello quali pensieri pensare, quale calma inseguire.
Io non lo so chi sia quest'uomo. Però magari potrebbe avere un figlio, un figlio per il quale quest'odore è casa, non so come dire, la sua casa.
L'incertezza è un liquido che saprà sempre come infilarsi nei miei spazi. Il mondo straborda di cose che non so, che non saprò mai.
L'asfalto corre e si srotola infinito sotto di noi, Non ho voglia di arrivare in nessun posto, non c'è alcun motivo valido di avere una meta.
Sento suonare il telefono. Richiamerò più tardi, forse.
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