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Radio Pushkar

  • Immagine del redattore: Daniele Benussi
    Daniele Benussi
  • 25 nov 2022
  • Tempo di lettura: 11 min

Aggiornamento: 7 dic 2022

Nel mio viaggio indiano scrivere è stato, più che mai, qualcosa di necessario per capire.

Sto lavorando per legare i vari frammenti che ho scritto. Spero, a breve, di farne qualcosa di strutturato.

Qui sotto c'è uno di questi frammenti: racconta dell'ultimo posto in cui mi son fermato, Pushkar, in mezzo al deserto del Rajasthan.



Chiudo lo zaino con sempre più fatica: non sono mai stato uno spendaccione in quanto a oggetti e vestiti, ma qui mi sembra tutto così vivace che non riesco a resistere.

Per colazione sogno un cappuccino con cannella in cui inzuppare un cornetto al pistacchio, ma in realtà mangio pane naan speziato, riso alla curcuma con verdure e un intruglio piccante di pomodori in agrodolce. Da bere l'ennesimo chai, squisito.


Fuori dall'albergo c'è già Raj che mi aspetta in macchina. Tra Jaipur e Pushkar ci sono tre ore di guida, di cui la prima consiste nel procedere a passo d'uomo provando a intrufolarsi attraverso il traffico impazzito che porta fuori dalla città. Non ci si abitua mai a questo marasma, soltanto ci si passa dentro e si spera di uscirne meno esauriti della volta precedente.


Attraversiamo il deserto del Rajasthan senza troppo parlare. Raj è un tipo taciturno, e io voglio che questo continui ad essere un viaggio introspettivo, un viaggio dove osservo molto più di quanto parli, nonostante questi ultimi due spostamenti li stia facendo in macchina anziché coi miei amati treni. Le parole spesso fanno come certe lenti girate al contrario: rendono piccolo ciò che invece è immenso e non riportano i dettagli, che sono tutto.


Il deserto è un po' diverso da come me l'ero sempre immaginato, non è spoglio come pensavo. C'è vegetazione sparsa, ci sono rocce, ci sono animali, perlomeno nei pressi della strada. Non è raro che le mucche ci attraversino davanti, persino in autostrada, lente e assolutamente indifferenti al fluire del traffico. Per questo il limite di velocità rimane sempre di ottanta all'ora: non si sa mai cosa potrà capitare sul percorso e bisogna sempre essere pronti a rallentare o a fermarsi.


Allontanandosi da Jaipur la strada si fa meno trafficata e le corsie non sono più segnalate. Moto e macchine in contromano ci passano accanto come se niente fosse. Nell'aria c'è polvere biancastra, sabbia del deserto sollevata dai veicoli che rimane sospesa e si infila dappertutto, ma il cielo è finalmente azzurro e limpido, per la prima volta in questo mio viaggio sembra senza tracce di inquinamento.


Per entrare nella piccola città di Pushkar con un veicolo a motore serve superare una barriera controllata da una decina di persone con la faccia seria, che si atteggiano come se stessero gestendo un gran traffico di soldi e droga: in realtà chiedono a chi guida di versare una tassa di 40 rupie, circa cinquanta centesimi di euro, dopodichè si è dentro.


Ci fermiamo su una strada sabbiosa e trafficata, in in punto in cui autobus e taxi scaricano fiotti di turisti e pellegrini un po' spaesati. La via principale della Pushkar, la Main Bazar Road, non è accessibile alle macchine, così saluto Raj con cui mi dò appuntamento a domani per il rientro a Delhi e mi incammino verso la guesthouse che ho prenotato online pagando la bellezza di tre euro per una notte.


Al mio arrivo alla Shiva Guesthouse trovo due donne di mezza età inglesi che girano scalze fumando erba. Ci presentiamo e mi spiegano che stanno gestendo loro la struttura in questi mesi, assieme al proprietario indiano che però spesso non c'è. Mi accolgono con calore e mi raccontano la loro storia: è da dieci anni che vanno e vengono da Pushkar all'Inghilterra, anche più di una volta all'anno: «Te ne accorgerai, questa città è fottutamente magica!».

Mi raccontano poi dei gruppi nomadi che vivono nel deserto qua attorno a Pushkar. La maggior parte di queste tribù è composta da artisti, ai quali loro spesso portano cibo o sostegno economico in cambio di un'esperienza in mezzo alla loro comunità piena di musicisti.

Mi mostrano gli strumenti musicali di queste persone: sono pazzeschi. Lunghi flauti con buchi enormi, delle sorte di mandolini lunghissimi e con una miriade di corde e altre diavolerie che non saprei neanche come descrivere.


La guesthouse è molto carina, piena di amache e cuscini colorati su cui svaccarsi o meditare. I muri sono bianchi e le porte azzurrissime, e per un attimo mi pare di essere in Grecia. La mia stanza invece, coloratissima, è un buco senza finestre né spazio per muoversi: dentro ci stanno il letto, lo zaino, il mio corpo e nient'altro. Il bagno è fuori, la doccia è fredda. Ma va bene così, l'atmosfera è comunque molto confortevole.


La prima sensazione che ho di Pushkar - non solo per le due inglesi della guesthouse - è quella di essere finito in una cittadina profondamente marchiata dalla comunità hippie, che qui deve aver trovato uno dei suoi principali punti di attracco a partire dagli anni settanta, quando l'India cominciò ad essere una meta piuttosto comune per i giovani sessantottini europei e americani.


Ma come sempre, una vera idea del posto in cui mi trovo me la posso fare soltanto camminando e guardandomi attorno. Giù lo zaino allora, su la macchina fotografica, e riparto.


Fuori è tutto un gran casino, una grande polveriera umana da cui faccio fatica a estrapolare sensazioni pulite, ma credo di averci visto giusto: Pushkar è il posto più hippie che ho incontrato fin qui. I ristoranti e i bar offrono un mix di pietanze indiane e occidentali, i muri sono costellati di murales di Bob Marley e i mercanti vendono i classici vestiti da fricchettoni con le foglie di maria stampate ovunque. C'è un clima diverso rispetto alle città dove sono stato finora, qui sento qualcosa di più familiare e intorno a me vedo ancora più facce occidentali che a Varanasi.


Eppure, fra pizzerie, coffee-bar in stile americano e negozi di chitarre classiche, rimane accesa un'energia autenticamente indiana che si conserva intatta.


Mi pare di aver capito che questo, a differenza di molti altri popoli asiatici che stanno velocemente svendendo la propria identità, pur accettandola con tolleranza, non riservi grande attrazione nei confronti della cultura atlantista. Difficilmente, perlomeno fuori dai contesti borghesi delle grandi città, si vede un indiano mangiare nei ristoranti occidentali, ascoltare la nostra musica o cucinare i nostri piatti. Fatta eccezione per le poche isole progressiste arroccate sui grattacieli di Delhi o Mumbai, dentro le radici dell'enorme popolo indiano c'è qualcosa che resiste. A tutto. Persino al vento imponente dei social e della globalizzazione, e forse è proprio per questo che io, come tanti altri viaggiatori, mi trovo qui.


Come quando sulle isole greche ci si avventura nei piccoli villaggi interni e si viene a contatto con il popolo contadino, i viaggiatori del mondo qui incontrano la gente più statica e radicata in assoluto, per capirne la natura e le tradizioni: forse un futuro promettente per il pianeta sta nel risultato di questo strano cocktail, composto da chi sa e chi ha sete di sapere, chi vive con poco e chi vorrebbe imparare a farlo, le radici infilate nella terra e le foglie dell'albero che sventolano all'aria. Due ingredienti apparentemente cosi distanti, ma in fondo complementari. Senza l'uno si fa fatica a immaginare un futuro possibile per l'altro.


Pushkar, come Varanasi, è una delle città sacre dell'induismo, una di quelle dove un fedele dovrebbe mettere piede almeno una volta nella vita. La sua vita è tutta raccolta intorno al piccolo lago omonimo, le cui acque sono considerate sacre e purificanti quasi quanto quelle del Gange.


Qui c'è uno dei pochissimi templi al mondo dedicati al dio Brahma, la principale divinità induista, che si dice abbia generato il lago di Pushkar facendo cascare un fiore di loto a terra.


Proprio nelle acque di questo lago è stata gettata una parte delle ceneri del Mahatma Gandhi, a cui è anche dedicato uno dei cinquantadue ghat della città, le scalinate che portano giù verso il lago per bagnarsi e purificarsi. Nei pressi dei ghat l'atmosfera non è poi così diversa da quella di Varanasi, i rituali di lavaggio sacro sono gli stessi, anche se l'intensità delle emozioni a cui ti costringono i due posti non sono paragonabili, Varanasi è irraggiungibile.


Ogni anno a Pushkar, in una settimana a cavallo tra ottobre e novembre si celebra la Kartik Mela, la fiera dei cammelli. Migliaia di mercanti di animali si mettono in cammino da tutto il Rajasthan e raggiungono la città per fare affari e commerciare bestiame, le vie si riempiono di colori, luci, eventi di ogni genere, e dall'alba fino alle prime ore della notte successiva si festeggia senza sosta. In realtà, seppure possa sembrare un festival goliardico, si tratta di una festa religiosa molto sentita, per la quale si muovono fedeli induisti da tutta l'India e non solo.


Quest'anno, coincidenza, la settimana eletta è proprio questa in cui arrivo io. E me ne accorgo subito. Non appena metto piede nella via principale trovo una valanga di persone che affollano ogni angolo possibile. Non c'è letteralmente spazio per camminare, ovunque mi giri c'è qualcuno che mi sta fiatando addosso. La via principale di Pushkar, l'unica grossa arteria che circonda tutto il lago, è totalmente satura di persone che come formiche si muovono in ogni direzione, si fermano a comprare nelle botteghe, gridano, si scontrano, si calpestano a vicenda.


Mi avevano parlato di questa città come un'oasi di pace, ma l'atmosfera è tutt'altro che rilassata. È una giornata di festa eppure tutti sembrano voler arrivare prima possibile ovunque stiano andando (quasi tutti al tempio di Brahma), si muovono veloci e imprevedibili, si infilano nello spazio minimo che c'è tra i corpi e sgusciano via come pesci. Il tutto condito dallo strombazzare dei clacson dei motorini a cui, assurdamente, è concesso circolare anche in mezzo alla gente.


Gli unici a mancare sono gli animali, quest'anno proibiti per via dell'influenza che nei mesi scorsi ha sterminato centinaia di migliaia di mucche in tutta l'India. Ora grazie ai vaccini il problema sembra rientrato, ma essendo un'occasione di festa il governo ha deciso comunque di vietare gli animali.


Percorro tutta la via principale e arrivo davanti al famoso tempio di Brahma, dove la folla è ancora più densa. Grappoli di fedeli scalpitano per entrare in quello che rappresenta il culmine del loro pellegrinaggio a Pushkar. La frenesia con cui tutti si muovono verso il tempio mi ricorda quella di Calcutta davanti al tempio di Kaligath, e guardandomi attorno noto che i rituali sono gli stessi: mazzi di fiori e aggeggi vari vengono messi in mano ai turisti che spaesati si fanno accompagnare dentro al tempio per farsi benedire da qualche Santone improvvisato prima di sborsare la consueta offerta.


Questa volta decido che non fa per me, mi volto e torno verso il lago. Mi sento stressato, ho bisogno di un luogo calmo, se esiste.


Una cosa che ho sicuramente appurato in questo viaggio è il fastidio che provo verso le visite ai luoghi considerati d'interesse turistico, quelli dove vanno tutti solo ed esclusivamente perché ci si deve andare. Ma chi l'ha detto? Spesso quelli sono proprio i luoghi dove l'autenticità è morta da un pezzo e rimane soltanto un botteghino o qualche avvoltoio a chiederti dei soldi. I posti vanno scoperti, vanno girati con la curiosità di chi sta esplorando con la vista e col cuore, non si può contare soltanto su una guida che prepara e imbusta il percorso pronto da seguire. Una volta fissati dei punti di riferimento, il percorso va fiutato e creato da sè: non può esserci altro modo di viaggiare che questo se non ci si vuole rammollire.


E così, anche a Pushkar, mi ritrovo a vagare per le vie più isolate, sulla sponda del lago dove non c'è traccia di turisti, a scattare foto alle oche in volo sull'acqua, ai bambini che si rincorrono in mutande, a un gruppetto di nomadi del deserto che suonano appartati i loro immensi strumenti rudimentali.


Fuori dal tracciato c'è la vera la bellezza, c'è la vita.

Mi fermo su una grande roccia a leggere, tutto si riequilibra.



Ritorno fra la folla soltanto verso l'ora del tramonto, per godermelo dal punto più panoramico. Finalmente un cielo pulito rende onore al sole indiano che scende: striature calde si librano in cielo e poi scendono a scagliarsi sul lago che si fa arancione, poi rosso, poi viola, e alla fine, a firmare tutta questa poesia, il buio.



Ma la festa continua. Proprio sotto al punto panoramico, sullo spiazzo che costeggia il lago, è allestito un grande palco circondato da tappeti e cuscini di qualsiasi colore. Gli spalti sono pieni di gente, almeno un migliaio di persone. Gruppi di turisti europei si mescolano ai fedeli, i bambini del posto corrono dietro a delle palline gialle che si lanciano a vicenda, i mendicanti, al pari dei cani randagi, cercano qualcosa con cui sfamarsi.


Per primo sul palco sale un Santone vestito di bianco, in piedi di fronte a una ventina di uomini e donne seduti a gambe incrociate. Ripete per almeno venti minuti dei mantra allungando in maniera esagerata l'ultima parola di ognuno. È una sorta di lagna ipnotica, che entra in testa e fa vibrare i timpani con violenza. Intorno al palco, sugli spalti, centinaia di fedeli fanno video coi telefoni e ascoltano in silenzio insieme ai propri familiari. In Italia spesso crediamo che i sermoni dei preti siano noiosi, qui in confronto ci sarebbe da spararsi: non ci sono discorsi, non c'è un contenuto, sono solo formule, richiami propiziatori verso divinità la cui esistenza qui non è mai, nemmeno per un secondo, messa in discussione. È incredibile vedere come queste cerimonie vengano vissute in maniera collettiva: anziani, gente di mezza età, ragazzi e persino bambini piccoli, tutti assistono e si sentono parte del rito, che a quanto pare per loro non è per niente noioso. Per loro è festa, è tradizione, è vita. Finiti i mantra enormi casse cominciano a pompare musica popolare, tutti si alzano in piedi, mentre sul palco prendono il via i rituali col fuoco rivolti verso il lago sacro di Pushkar. Ragazzi sui trent'anni fanno girare dei grandi candelabri con dieci fiamme che bruciano su qualche grasso che potrebbe essere olio di sesamo o ghee. La gente applaude a ritmo, l'aria si riempie di odori, a me viene fame.



Per bilanciare la quantità di turisti europei che ho visto oggi, vorrei cenare nel posto più autentico possibile, solo che non ho idea di dove andare. Mi infilo così in un negozio di vestiti qualsiasi e chiedo a proprietario di consigliarmi il posto "più indiano" che conosca. Lui capisce subito cosa sto cercando e col sorrisone di chi sa di avere la risposta perfetta esclama: <<Venkatesh!!!>>.


Mi faccio spiegare la strada e vado. Per arrivare serve fare qualche slalom fra piccole vie vestite di sciarpe colorate e odori pesanti, ma in pochi minuti capisco di essere giunto a destinazione. Non grazie a un'insegna (che non c'è) bensì per ciò che i miei occhi si trovano davanti: un piccolo ristoro avvolto da muri scrostati color verde acqua costituito da una cucina, se così si può chiamare, che è un angolo a vista in cui un ragazzo agita un padellone immenso sopra a un fuoco che sfiamma dal cratere di un forno in pietra, e dei tavoli in legno lunghi e mangiati dall'umidità, seduti ai quali Sadhu, mendicanti e gruppetti di esili indiani consumano avidi le proprie pietanze. Un posto così non può che corrispondere alla mia richiesta, non può che essere Venkatesh.


Come in tutti ristoranti di Pushkar, anche qui non si serve la carne. La mia cena consiste in riso biryani alle verdure e una tazza d'acqua, che mi gusto con calma. Guardare il cuoco muoversi circondato da quelle fiamme è come assistere a un rito tribale. Dentro la padella gigante, che è sempre la stessa per ogni preparazione, fa volare dadini di verdure, colate d'olio di sesamo, pugni di riso e salse che tira fuori da uno scaffale sotto di lui. Accanto a me un Sadhu pinza un intruglio giallastro con le tre dita e il pane, che il cameriere porta con le mani a chi non ce l'ha.

Fuori gente colorata passeggia senza meta avvolta dalla penombra di queste otto di sera.

Lascio che sapori, odori e immagini mi si piantino dentro.


Qualche ora dopo mi trovo seduto sul terrazzo della guesthouse a guardare le stelle. Sotto di me la gente sfila ancora.


Il silenzio, in India, è qualcosa di astratto: se esiste, lo si può trovare soltanto dentro di sè.


 
 
 

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