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Ipermetropia

  • Immagine del redattore: Daniele Benussi
    Daniele Benussi
  • 3 ago 2023
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 9 gen 2024



Gli occhiali che porto oggi sono neri, opachi, con la lente sinistra il doppio più spessa della destra e la montatura rigida. Sono occhiali da adulto, da persona seria, si direbbe. Un pezzo di plastica con due vetri incastrati dentro, due vetri pensati per farmi vedere diverso. Meglio, si spera. E infatti quella degli occhiali è una delle metafore più abusate per rappresentare uno sguardo spogliato degli abiti pesanti dell’abitudine, che si veste di un nuovo approccio, più leggero e distaccato. Luoghi comuni, minestre riscaldate. Noia.

Di occhiali ne ho avuti tanti nella mia vita, circa un paio ogni tre anni. Ed è vero: presi singolarmente, sono stati tutti soltanto oggetti, pezzi di plastica con due vetri incastrati dentro. Niente più e niente meno. Quasi tutti hanno fatto una brutta fine, calpestati dalla suola di una scarpa, distrutti da una pallonata o accartocciati in fondo a qualche zaino.

Eppure, se penso che quei due piccoli vetri tondeggianti sono sempre stati il filtro posizionato tra i miei occhi e tutto il mondo che ho visto e toccato, non posso fare altro che pensare che, incastrate nei pezzi di plastica, oltre a due vetri, ci sono sempre state anche delle storie.


Storie come quella dell’ultimo giorno in cui ancora non sapevo di averne bisogno.


Ho quattro anni, le gambe corte, le mani tozze e un pomeriggio da passare in casa con mio nonno. Cosa vuoi guardare? I cartoni. Va bene. Mi accende il televisore: un rettangolo lontano che si illumina, emette suoni, e ogni tanto cambia colore. Mio nonno si siede con me sul divano. Sento il suo respiro, lento, soffiarmi accanto. Però lui i cartoni non li guarda. Lui legge il giornale: un rettangolo enorme, ma non illuminato, che tiene con entrambe le mani a dieci centimetri dagli occhi. Probabilmente a lui il rettangolo illuminato non interessa. E ci credo, mi dico, è così lontano che conviene trovarsi altro da fare anziché provare a distinguere qualche immagine. Solo che io non voglio rassegnarmi! Ho quattro anni, e a me piacciono i cartoni, non i giornali. E allora perché io non posso fare come lui, prendere il televisore con le mani e ficcarci dentro il naso? Forse così, oltre alle luci che ogni tanto cambiano colore, potrei anche distinguere qualche immagine, e magari persino capire se quello che sto vedendo è una puntata di Topolino Pesca Guai, di Mignolo e Prof. oppure di Holly e Benji.

O magari potrei alzarmi, prendere il divano con mio nonno sopra, e spingerlo ben sotto il televisore, e poi finalmente mettermi comodo. Ma ho solo quattro anni, e a quattro anni, anche se hai le mani tozze, i divani non li sposti. Figuriamoci coi nonni sopra.

Però non mi spiego perché io debba stare qui, seduto troppo lontano da quel rettangolo illuminato, a strizzare gli occhi per capirci qualcosa, col mal di testa che cresce e il nervoso che sale. Da un oculista per ora non ci sono mai stato, e ancora non lo so di avere i bulbi oculari più corti del dovuto, di non essere in grado di mettere a fuoco gli oggetti né da vicino né da lontano, di avere quattro decimi di vista nell'occhio sinistro, e appena due in più nel destro. Insomma non so ancora di avere un disturbo chiamato ipermetropia, che a sentirlo sembra quasi un superpotere, e invece significa che gli occhi mettono a fuoco le immagini non sulla retina, come quelli sani, ma un po' più indietro, in un punto che costringe a far fatica, la fatica che io, adesso, a quattro anni, sto facendo su questo divano maledetto.

E allora mi alzo, non dico niente al nonno, e mi siedo per terra a mezzo metro dal rettangolo illuminato, che di colpo diventa un televisore. E finalmente lo vedo bello nitido, Topolino, che pesca i guai. Finalmente.

Poi però sento una voce, e non è quella di Topolino. È una voce che arriva da dietro. E adesso chi è? E chi vuoi che sia, è mio nonno. Mi dice di tornare sul divano, chè stare così vicini al televisore fa male agli occhi. E quando lui dice qualcosa, di solito si obbedisce. E allora torno, a testa bassa, sul divano. E il televisore torna un rettangolo, Topolino una nuvola parlante, la mia testa un ribollire di incazzature. Strizzo gli occhi: escono solo lacrime, che bruciano. Mi agito, mi dispero, non ci sto più dentro.

Ma sai che c’è nonno?! Per le cose importanti bisogna lottare, e allora io torno a sedermi là per terra, tu leggiti il tuo giornale e lasciami capire che fine fa Topolino. Mi alzo sulle mie gambe corte, e torno a sedermi a mezzo metro dal televisore.

Topolino torna nitido, riesco persino a vedergli il giallo delle scarpe, e i due bottoni bianchi sui pantaloni rossi. Lo vedo, è lì, ancora che pesca i guai. Me lo godo.

Poi di nuovo la voce di mio nonno che arriva da dietro, questa volta più sporca, cattiva. Ti ho detto che devi stare sul divano. Io faccio finta di non sentire. Lui alza la voce e copre quella di Topolino. Devi-stare-sul-divano. Mi dice che non lo ripeterà più. Io allora mi alzo, vado verso di lui con la rabbia nella gola, gli sposto il giornale con una delle mie mani tozze, e con l’altra gli piazzo uno schiaffone sulla guancia sinistra. Io. A mio nonno. Uno schiaffone.


Pensate fin dove può portare un disturbo della vista, e pensate a quanti nonni hanno salvato e continuano a salvare le proprie guance dagli schiaffoni dei nipoti, grazie all'invenzione di quei pezzi di plastica con due vetri incastrati dentro, di cui io ancora, quel giorno, non sapevo di aver bisogno. Sicuramente un'infinità, ma non prima del 1286, anno in cui furono inventati i primi occhiali, per salvare la vista di scrivani e monaci, che lavoravano di precisione. A quei tempi gli occhiali erano composti da due cerchi di corno o di legno, uniti da un chiodo, dentro cui venivano inserite due lenti di vetro. Fino al diciottesimo secolo non furono usate le stanghette, e chi voleva indossarli doveva reggerli con le mani, oppure legarli attorno alla testa con un nastro di cuoio.

In pratica, quello che voglio dire è che dal 1286 in poi, per i nipoti con gli occhi malfunzionanti, iniziò ad esserci un'alternativa valida al tirare schiaffi al proprio nonno. A patto che sapessero di averne bisogno.


Ma tornando a noi, quel pomeriggio ne ho prese tante, o forse no, ne ho prese poche, poche ma buone. Mio nonno non è mai stato un uomo violento, ma quel pomeriggio un paio di sganassoni fatti bene me li ha tirati. E io ho pianto. Un po’ perché non ho potuto sapere che fine facesse Topolino, e un po’ perché, ormai da tempo, non riuscivo a capire come mai mio nonno, e come lui tutti gli altri, tenessero il divano così lontano dal televisore. Mi sembrava, quella, una tortura a cui nessuno doveva essere sottoposto. Non così gratuitamente.

La sera, a cena, i miei provarono a farmi una ramanzina per quello che avevo fatto. Un panzerotto di quattro anni che dà uno schiaffo a suo nonno. Ero impazzito?

Dopo un po’, però, vedendo l’ostinatezza con cui non cedevo ad ammettere il mio presunto errore, dovette finalmente formarsi nella loro testa un dubbio.


Qualche settimana dopo, a casa di mio nonno, potevo guardare Topolino dal divano, con il mio primo paio di occhiali appoggiato sul naso.


 
 
 

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