Fuoco e vestiti
- Daniele Benussi
- 12 dic 2021
- Tempo di lettura: 3 min
Quando chiudo gli occhi nelle sere d'inverno è un po' come se dentro di me si aprisse uno squarcio senza fondo. Non so dire esattamente cosa vedo. Le immagini non sono nitide, le sensazioni si mescolano. Tutti i miei pensieri si trasformano con velocità inaudita nei loro successivi e io non so proprio dire se a sciogliermi la bocca dello stomaco sia un ritorno nebbioso di qualcosa che ho vissuto realmente oppure soltanto l'intuizione malinconica del mondo che vorrei esistesse, come una maniera tutta mia di impastare i veri ricordi assieme a ciò che mi piacerebbe poter ricordare se solo tutto andasse o fosse andato come io ritenevo più conforme al mio modo di vivere. Voglio dire, questa pancia in fiamme conosce il suo piromane o lo sta solo creando con la forza dei sogni? Questi sguardi devastanti che mi attraversano il cervello, sono stati un tempo veri? Com'è che dentro di me tutto comincia a prendere fuoco soltanto quando i sipari sono calati?
Ancora una volta non si risponde. Si tace.
Però c'è una canzone, Paradise di Bruce Springsteen, che traduce tutto questo mio tacere in suoni. È così sconvolgente perché, se leggi il testo, c'è un momento in cui credi di sapere di cosa parli, e cioè di due donne alle prese col dolore: una, nella prima strofa, che per vendicare l'uccisione del figlio sta per farsi esplodere in un mercato, e l'altra, nella seconda, che sta per togliersi la vita dopo aver perso il marito su quel volo dirottato l'11 settembre 2001 dai terroristi. La realtà, però, è che non finisci mai di capire davvero di che cosa si parli. I versi non appartengono a questo mondo e si intrufolano in sentieri misteriosi da cui emerge solo una nuvoletta, una fumata di sensazioni miste, senza un vero nome, senza una vera identità, non una sola almeno. Finché rischiacci play. Ancora una volta.
Stasera passeggiavo a caso per le strade del centro in mezzo a una fiumana di esseri umani tutti presi dal fare cose che - pensavo - prese nella loro singolarità non meriterebbero tutta la fatica che invece richiedono per essere fatte. Se ci si pensa, perché mai bisognerebbe salire i settecento gradini di un monumento per scattare una foto? Perché ci si dovrebbe accalcare in fila a un semaforo, per entrare in un cinema, per conoscere persone nuove? La fatica dell'organizzare un'azione dovrebbe bastare già per rendere quell'azione priva di senso e di attrattiva. Eppure noi continuiamo, maciniamo passi, vediamo persone, rifacciamo letti, ci laviamo i denti, saliamo sugli aerei, stringiamo nuove mani, viaggiamo.
E poi mi sono guardato, anche io come tutti gli altri, preso a fare qualcosa che non ha alcuna utilità di essere fatta: consumare calorie e scarpe nel mettere un piede davanti all'altro per poi ogni tanto fermarmi e rendermi conto dei profumi di cibo, dei palazzi antichi e delle basiliche illuminate dalle luci arancioni dei lampioni notturni, della luna piena che gli galleggia sopra.
Allora ho pensato che forse si vive non tanto per il gusto di vivere, quanto più per costruirsi un immaginario che permetterà alle esperienze vissute di essere riesplorate, rimpastate, ricordate, per vibrare una volta di più, nella solitudine della solita vecchia stanza, con la fiammella che non si spegne e il vortice che continua a danzare. E pazienza se il reale e la sua proiezione non coincidono. Alla fine cos'è che conta davvero? La carne o gli occhi con cui decidiamo di vederla?
Forse la differenza tra i morti e i vivi sta proprio nel modo in cui i vivi scelgono di far funzionare la macchina dell'immaginazione, in tutto ciò che riesce nella magica impresa di vestire una realtà che altrimenti avrebbe sempre freddo.
Mio padre dice che, arrivato alla sua età, un bel fuoco è la cosa migliore. In un modo o nell'altro si finisce sempre lì: a bramare il calore che serve per rimanere vivi.
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