Con sufficiente entusiasmo
- Daniele Benussi
- 25 lug 2021
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 9 gen 2024

Di discussioni in quegli anni ne abbiamo avute parecchie, io e Lara. Non è che me le ricordo di preciso. Voglio dire, non so perchè si discuteva. Però ricordo le sensazioni. Ricordo ciò che si muoveva dentro di me nel momento in cui fra noi si spezzava il filo.
Ricordo, soprattutto, che non era mai colpa di nessuno di noi due. Semplicemente era la vita, che si divertiva a spennellare la sua muffa quotidiana sul nostro sogno.
Bastava un oggetto allineato male su una mensola, una tonalità un filo accentuata nel dire qualcosa, una carezza di uno dei due posata male sulla nuca dell'altro, e il seme del fastidio cominciava ad attecchire. Chissà perché, mi dico. E non lo so come rispondermi, però è così che andava.
Ricordo piuttosto bene anche il giorno in cui intuii che sarebbe andata a finire esattamente così. Ci si conosceva ancora da poco e ci si vedeva più che altro per fare delle cose insieme, non tanto per vedersi. Cerco di spiegarmi meglio: Lara mi piaceva, ma il fatto di vederla doveva essere finalizzato alla condivisione di una qualche esperienza per poter varcare la soglia della mia accettazione. Altrimenti qualcuna delle vocine dentro di me, dopo tanto vivere, aveva imparato a imporsi sulle altre nel persuadermi che se non c'è niente da fare, allora è meglio starsene da soli. Ché il niente si può anche fare, ma da soli lo si fa meglio.
Credo che il punto sia questo: che nella vita di chi vive ci sono attimi di grande trascendenza in cui si arriva a sentire ogni cosa nel minimo dettaglio. E che la nostra carcassa mentale si affezioni in maniera assolutamente tenace a quegli attimi, così tanto da farne vero e proprio culto. Più che a quegli attimi, ci si affeziona alle sensazioni di quegli attimi. Insomma tutto quel sentire, così inaspettato, così folgorante, così vasto. Questo credo: che la nostalgia di quel sentire finisca per prendere nella testa i contorni dell'ossessione, divorandoci con l'ansia di affrontare poi qualunque altro momento che non regali sensazioni di intensità simile. Cioè la parte sotto dell'iceberg: il novantanove percento dell'ammassarsi dei giorni: roba da cui è meglio proteggersi.
Da qui, proprio da questa riflessione, credo nascesse la mia esigenza di frequentare Lara soltanto in occasioni precise, concerti, festival, fiere, gite, cose con uno schermo davanti, cene in ristoranti etnici. Insomma qualcosa da fare, tempo da poter fermare anzichè noia da dover smaltire.
Ricordo anche, tuttavia (e questo mi viene facile da ricordare perchè sono ancora così), di non essere mai stato convinto delle mie idee per più di qualche ora. Lo so, non è il massimo... Ma ho sempre vissuto alternando il buio alla luce senza passare dallo spiraglio. Nottate di totale certezza seguite da risvegli tremendi, dove il sole del mattino mi si impone addosso e soffoca ogni mio slancio, dal lavarmi i denti all'uscire di casa e spostare la macchina per il lavaggio delle strade. Neanche morto. Che me la portassero in deposito, quella macchina di merda. Ma sapeste poi con quale amore e parsimonia vado a ritirarla qualche ora più tardi, quando riprendo in mano la capacità di agire. E con quale cura mi lavo i denti, dovreste vedermi.
Eppure non c'è niente da fare, prima di rinascere mi serve morire, ogni giorno. Col primo sole ci faccio a pugni. Ed è questa, esattamente questa, la roba da cui volevo proteggere me stesso e Lara, insomma il nostro rapporto. Una mancanza cronica di costanza nel credere alle mie idee e la pesantezza del dover condividere con lei ciò che già mi è difficile condividere con me stesso. Non volevo proprio che lei mi vedesse fare a pugni con un sole che in fondo sapevo anche come amare, tutto qua.
Inutile dire che anche nel portare avanti questo mio intento non fui costante. Dopo qualche mese di belle esperienze vissute insieme, credo di aver pensato che in fin dei conti non ero nessuno per poter dire a Lara quando e come vederci, e che magari poteva avere ragione pure lei nel credere che fosse tempo di iniziare a fare insieme non solo cose, ma anche un po' di nulla. Sì, credo sia andata così. Ma credo anche che ciò che credo ora, tutto intorpidito al freddo di questa stanza di merda, conti decisamente poco. Sicuramente meno della realtà, che inesorabile fece il suo corso e si compì: dopo quattro mesi, Lara, di certo non senza il mio consenso, racchiuse il suo guardaroba in una valigia più grande di lei e si presentò alla mia porta. Sotto un braccio teneva una scatola di cioccolatini che non vedevo da quando ancora vivevo a casa dei miei. Li mangiava mio padre la sera, in silenzio, mentre faceva arrivar notte guardando la tele sul divano. Uno dopo l'altro. Poi si addormentava con la bocca aperta a gridare respiri pesanti. A notte fonda capitava che mia madre si svegliasse e passasse di lì andando in bagno. Raccoglieva le carte dei cioccolatini e le buttava via. Poi se ne tornava a letto da sola e lasciava mio padre lì inchiodato a russare con la tele accesa.
Questo era il mio pensare quando vidi Lara presentarsi a casa mia, che ormai era casa sua… Casa nostra insomma.
Esattamente lì, in quel momento preciso in cui le suole delle sue scarpe pressavano il mio zerbino in attesa di un mio "benvenuta a casa, amore", nell'entusiasmo del suo sorriso grintoso, nell'immensità della valigia che doveva contenere tutto l'armamentario per affrontare non un weekend ma la vita, in tutto ciò che avrebbe dovuto rendermi un uomo che intravede il realizzarsi del suo vivere, io ci scrutai l'abisso. Dopodiché accolsi Lara con un sorriso: benvenuta a casa, amore.
Credo che tutto ciò che accadde poi, i semi del fastidio di cui parlavo prima, non furono causa ma conseguenza, che sia io che Lara ce l'abbiamo messa tutta e anche che attribuire colpe a qualcosa o qualcuno sia uno sport che gli uomini dovrebbero smettere di praticare.
Oggi Lara ha tre figli e vive con un geometra che deve aver saputo scartare i cioccolatini con sufficiente entusiasmo.
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