Come un frigorifero aperto
- Daniele Benussi
- 14 giu 2022
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 22 mar 2024

Finita la benzina interiore non mi è rimasto che andarmene, via via via da tutto quello stagno di lacrime mai scese e roba che non sa di niente.
Non sapevo nè so tuttora dare un nome al mio star male, non so dire se ci fosse un nemico o se fossi io stesso il nemico. Dico solo che non ero più capace, almeno da qualche mese, di provare rabbia. Rabbia intesa come energia, come desiderio di affermazione del calore umano sopra la poltiglia gelida e appiccicosa di questi tempi.
Ero indifferente a me stesso, a chi mi girava accanto, alle disgrazie in televisione, al sapore dei pomodori, alle canzoni che qualche anno prima mi avevano segnato l'esistenza. Assente alla mia stessa vita, non sapevo più cosa muovesse le creature, che cosa fosse importante, chi avesse ragione nelle discussioni. Avevano ragione tutti. Non aveva ragione nessuno. Ogni comportamento mi pareva insensato, di ogni cosa scorgevo il suo tendere verso l'inevitabile fine. Di un uomo che correva al parco vedevo il decadimento dei suoi muscoli, di due fidanzati che passeggiavano a braccetto scorgevo la sagoma sfocata di un futuro a guardare Barbare D'Urso e partite di campionato islandese in due stanze diverse, della mia macchina ancora in salute immaginavo l'arrugginirsi degli ingranaggi che la muovevano. L'insostenibile fardello della decadenza: era dappertutto.
Anni di solitudine e prevedibile quotidianità mi avevano rivestito di un massiccio strato di imperturbabilità con il quale potevo ormai giocare senza divertirmi: niente era più in grado di farmi particolarmente male, e niente era più in grado di farmi particolarmente bene.
Tiravo avanti sentendomi come può sentirsi un frigorifero costantemente aperto.
La sera però, prima di chiudere gli occhi, davo un bacio immaginario al mio soffrire: avevo capito che a un certo punto della vita le cose vanno come devono andare e che dannarsi a tentare di modificarle rinforza soltanto l'attrito con cui le viviamo. Lasciati stare Toni, mi dicevo, tutto troverà il modo di fluire. E mi coricavo così, abbracciando un cuscino e quest'eco lontana di speranza: tutto troverà il suo modo di fluire. Forse anche la tua vita, un giorno, avrà voglia di incastrarsi dentro il ritmo con cui gira tutto quanto.
Ed è proprio così che va.
Una mattina sei pieno fino alla gola: di musica giusta, di energia, di veleno, e parti. Due giri di chiave alla noia e ti levi dai coglioni. Il passato che rimane fermo a guardarti e sembra dire dove te ne vai Toni fatti scorticare l'anima ancora un po'. Ma tu no, è finita la pacchia. E gli fai anche il dito medio, così, senza voltarti, a braccio alzato tipo Statua della Libertà.
Sono andato via.
Passando sotto casa di Angela ho sentito un brivido che però è passato in fretta.
Poco più in là al semaforo di Piazza Carlino ho sgasato via la malinconia e ho pensato che non ci si pensa mai a certe cose tipo a quanto si possa spaccare le palle un semaforo a consumare una vita in cui non c'è altro da fare se non imbrattare di luce verde gialla e rossa lo stesso angolo di asfalto per tutte le ventiquattr'ore di ogni giorno di ogni anno. Nemmeno il calcetto il martedì con gli amici o che ne so un concerto o un tiro di qualche cosa di buono ogni tanto. No niente di niente. Ma a ognuno le sue sfighe amico semaforo.
Ho pensato anche che la sensibilità con cui si vede non è sempre la stessa: quando le cose iniziano a profumare di cambiamento, si vede tutto, davvero tutto. Si hanno idee, si intuisce.
E poi, passando di là, più avanti, c'era la solita combriccola al pub che giocava a burraco e beveva la stessa vecchia robaccia da quattro soldi che più scende in pancia e più ti scalda finché non si trasforma in merda rovente che brucia nell'intestino e poi il buco del culo che pizzica una giornata intera. Il solito covo di disperati che faceva arrivar sera come sempre e vedendomi passare tutto incarognito qualcuno ha alzato un braccio come dire fermati Tonino bello dove cazzo vai così di fretta, ma io neanche per le palle! Non mi son fermato mica, ché la botta di energia quando ti prende non devi proprio lasciarla scappare via altrimenti la perdi e non la ritrovi più, pensi di fermarti a dire ciao a un amico e poi magari ti tocca abbassare il volume allo stereo che pompava che ne so Sympathy For The Devil oppure Sister Morphine e questo ti attacca un pippone su sua madre che sta male o su quelle faccende di coppie che arredano casa e camminano incontro alla vita con entusiasmo e a te ti ripiglia la depressione e ti scende subito la catena, lo stereo ti dice col cazzo che ora ti passo altra energia buona e la botta ti fa ciao e tu rimani lì con gli occhi pieni di vuoto a guardare in faccia il ritorno della noia che ti riagguanta fetente. Nemmeno per sogno. Non si può rischiare. La botta va custodita. E pazienza, mi son preso qualche dito medio dai rancidi del pub ma ho tirato dritto, tanta era la smania di prendere il largo da questa città fantasma.
Altre due sgasate e i palazzi avevano iniziato ad abbassarsi, le colate di cemento a fare spazio al verde, l'aria a farsi fresca. E io respiravo, respiravo forte. Guidare era come allontanarsi dalle idee che si erano ormai solidificate nella mia testa per cominciare a scolpirne di nuove, ogni cosa sfumava, mi pareva di non ricordare più nemmeno i volti e le voci di chi fino a lì avevo visto ogni giorno per tutti quegli anni.
Ogni possibilità era come se acquisisse un suo diritto di essere, una sua voce. Tutto, davvero tutto, possedeva una sua eventualità di accadere.
Ero qualcuno che non era mai esistito.
Dove andavo non lo sapevo, però andavo.
Perché ce n'era bisogno, perché ogni tanto tocca fare quello che si vuole e non sempre e solo quello che si deve. Ogni tanto tocca tornare a vivere.
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