Fumo
- Daniele Benussi
- 25 lug 2021
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 9 gen 2024

Quattro anni fa entravo in quella nube nera. Non pensavo che il mio nome sarebbe mai finito sui giornali. Mi chiamavo Frederick, avevo ventisette anni, come Kurt, Marilyn, Amy e Jim. Avevo già due bimbe, due gemelline nate sei anni prima, nel giorno in cui la primavera stringe la mano all’inverno. Mi piaceva giocare con loro, scambiandomi qualche sorriso umido con Lisa, mia moglie, che amava quella versione di me bambino. A quei tempi lei non lavorava, e il tanto tempo libero aveva restituito calma ai suoi occhi verdi, una luce che inondava tutto ciò con cui entravano in contatto. Tutte le mattine portavo a scuola Rose e Sharon. In macchina ascoltavo con attenzione i loro discorsi sconclusionati e cercavo di rispondere con impegno a ogni loro curiosità: volevo che con me si sentissero già delle piccole donne. Poi si arrivava. Le mie mani ruvide accarezzavano un saluto sulle loro chiome bionde, e per otto ore andavo a fare i conti con l’inferno. A pomeriggio tornavo a prenderle esausto, con gli occhi assetati del blu cobalto del cielo e gli altri sensi che bramavano acqua. Acqua fresca da toccare, bere, sentire scorrere. Così andavamo al parco del paese a giocare, noi tre e la valigetta con gli omini di gomma. Non ne abbiamo mai parlato davvero, eppure per qualche motivo Rose e Sharon non hanno mai preso in considerazione altalene e scivoli. Quasi per riverenza nei miei confronti, hanno sempre tirato dritto verso il laghetto centrale, tenendomi per mano, come per trascinarmi verso la freschezza di cui avevo bisogno. Ci piaceva arrampicarci fin sulla cascata e sistemare gli omini di gomma tutti in cerchio intorno alla schiuma, in modo che metà dei loro piccoli busti si infradiciasse per bene, ma stando attenti che non venissero trascinati giù dalla corrente. Ci si impegnava, ma a volte un omino perdeva aderenza e via, rapido si inabissava in quel blu acceso, mentre qualche lacrima bagnava gli occhioni delle bimbe in lutto. Quando succedeva, io me ne stavo lì coi piedi a mollo, e devo dire che li invidiavo parecchio, gli omini di gomma.
Era una vita di opposti, eppure reggeva. Mi chiamavo Frederick, ero un padre di ventisette anni. Facevo il pompiere.
Chi uscì da quella nube nera, quattro anni fa, non ero più io. Era un uomo senza identità, con in braccio il corpo carbonizzato di un bambino. Tenevo fra le mani la versione di me che più amava Lisa, questa volta ridotta in cenere, senza più battito. Chi mi vide uscire da tutto quel fumo applaudì forte; qualcuno mi gridò che ero un eroe. Non sapevano che non c’era nessuno a sentirli, di certo non più io. La mia giovane vita era cambiata per sempre. Frederick quel giorno lasciò il lavoro: i suoi occhi non riuscivano più a sopportare l’inferno, cercavano il blu. Oggi Frederick non è più nessuno. Le cose sono diventate insipide, e sua moglie è tornata a vendere barrette energetiche. Rose e Sharon sono diventate piccole donne, e gli omini di gomma prendono polvere giù in cantina. In paese la gente vive normale, niente è cambiato. Lui si aggira coperto di ombra. Qualcuno ogni tanto lo incontra e gli stringe la mano: «A questo mondo servirebbero più persone come lei, signor Frederick, coraggio!». Lui guarda su: il cielo è sempre incredibilmente blu. E allora respira.
È venerdì pomeriggio, al parco qualcuno griglia delle salsicce. Una sottile striscia di fumo nero si alza verso il firmamento. Frederick la segue con gli occhi: finalmente ha capito dove porta quel nero. Sente l’ultimo brivido della sua giovane vita salirgli per la schiena. Nella tasca destra il freddo di un ferro richiama la sua mano.
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